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Conflitto israelo-palestinese: “Il 7 ottobre segna l’inizio del V atto, quello dell’esito”

a cura di in data 13 Gennaio 2024 – 00:02Nessun commento

Des Palestiniens forcent la frontière avec Israël depuis Khan Younès, dans le sud de Gaza, le 7 octobre.
(IMAGO /MAXPPP)

Obs 23 dicembre 2023,
di Vincent Lemire, storico

Lo storico Vincent Lemire, specialista del Medio Oriente, ripercorre un secolo di scontri nella culla dei tre monoteismi. Egli accenna alla speranza paradossale di una soluzione in questa intervista eseguita in occasione di un numero speciale “Israele-Palestina, la storia tragica di una Terra promessa”.
Intervista a cura di Ursula Gauthier – Traduzione dal francese di Hèléne Colombani Giaufret

Nel suo fumetto Storia di Gerusalemme (con i disegni di Christophe Gaultier, Les Arènes, 2022), lei ripercorre la storia movimentata di una terra che è stata dominata da numerosi imperi da quattromila anni. Questa guerra non è quindi una novità…
Vincent Lemire. Questa regione è un mosaico di popoli, di culture, di religioni, dove effettivamente non sono pochi gli scontri. Ma fintantoché è stata integrata a grandi imperi (Egitto, Bisanzio, mamelucchi, Ottomani…), queste diverse comunità hanno potuto coesistere. L’unico momento in cui la coesistenza è stata impossibile è quando i crociati hanno voluto insediarsi sopprimendo quanto non era cattolico latino. È finito molto male per loro! Richiudendo questo fumetto, il lettore avrà almeno una certezza: nessuna sovranità esclusiva può dominare durevolmente questa regione.

Dal 7 ottobre si assiste al ritorno di un conflitto che avvelena il mondo da decenni. Questa volta è cambiato qualcosa?
Si apre oggi una nuova fase di un conflitto nato tra i secoli XIX e XX, quando si sono sciolti gli imperi e il progetto sionista si è scontrato col nazionalismo palestinese. L’intero XX secolo ne è stato segnato. Prima vi è stata la genesi di due progetti nazionali concorrenti. Poi una fase di forte impegno delle istanze internazionali, con il mandato britannico decretato dalla Società delle Nazioni dopo il 1917 poi il voto dell’ONU del 1947. È comparso allora il «conflitto israelo-arabo» degli anni 1950-1970, una fase di guerre convenzionali tra Stati. Seguita da un periodo in cui le intifada si alternavano con fasi di negoziati, aventi come perni l’Autorità palestinese e l’Organizzazione di Liberazione della Palestina (OLP).
Il 7 ottobre segna l’inizio del quinto atto, quello della soluzione: i rischi sono diventati talmente estremi, e gli attori talmente incapaci di elaborare una soluzione che la comunità internazionale è chiamata a mobilitarsi per proporre soluzioni creative.

I leaders mondiali parlano nuovamente della soluzione a due Stati.
Dagli anni 1920 ci sono due schemi: o uno stato binazionale, in cui Ebrei e Palestinesi convivono in un unico Stato – e vediamo bene che non è più ipotizzabile; oppure una divisione territoriale tra due Stati omogenei, soluzione anch’essa impraticabile a causa dei 740.000 coloni ebrei in Cisgiordania e a Gerusalemme Est. Occorre quindi andare avanti verso un nuovo orizzonte.

Quale?
La soluzione più promettente è quella detta “One Homeland, Two States” – un territorio, due Stati. L’assenza di uno Stato in grado di rappresentare, proteggere e di controllare i Palestinesi costituisce infatti una minaccia per le due popolazioni, ivi compreso per la sicurezza d’Israele. La soluzione sarebbe dunque di due Stati, due cittadinanze, due Parlamenti, due fiscalità, due amministrazioni ma con delle popolazioni in parte inframmezzate sugli stessi territori, per forza di cose.

Tale coesistenza è ancora pensabile dopo il 7 ottobre?
Sì, poiché ci sarebbero proprio due entità statali. Oggi, de facto, vi è un solo Stato dal mare al Giordano, lo Stato israeliano – un solo esercito, una sola frontiera internazionale, una sola moneta – in cui vivono 7 milioni di ebrei Israeliani e altrettanti Palestinesi. Soltanto gli Israeliani hanno diritto ad una rappresentanza e a una tutela. I Palestinesi devono avere uno Stato che garantisca loro gli stessi diritti e gli stessi doveri. E ognuno dei due Stati deve essere in grado di riprendere il controllo della sua stessa popolazione, estremisti compresi. Per questo occorre una evoluzione del quadro classico dello Stato-nazione.

Ma in Israele si ha l’impressione che coloro che si battevano per la coesistenza non ne hanno più voglia.
Si deve forse fare leva non più su una voglia di coesistenza bensì sulla necessità imperiosa di sicurezza, dalle due parti. È stato raggiunto un tale livello di tragedia e atrocità che s’impone la necessità assoluta di uno Stato palestinese che possa parlare in nome della sua popolazione, proteggerla e controllarla.

La sequenza degli eventi dei due ultimi mesi non rafforza gli estremisti israeliani?
A breve termine certamente. Ma l’estrema destra cozza contro un immenso paradosso: accelerando la colonizzazione, essa lavora concretamente all’avvento di uno Stato binazionale. Se la Cisgiordania viene annessa come desiderano i coloni, avranno creato uno Stato in cui i Palestinesi passeranno dal 20% al 50% della popolazione. Gli ebrei estremisti pretendono di potere controllarli con l’instaurazione di un’apartheid ufficialmente assunto. La storia ci insegna che sbagliano, e che in questo modo fanno correre un rischio esistenziale alla popolazione israeliana.
Di fatto hanno fatto carta straccia del progetto sionista che consisteva nel porre in sicurezza gli ebrei della diaspora minacciati dall’antisemitismo, a favore del loro progetto messianico: conquistare tutta la terra d’Israele affinché il Messia possa avvenire. Ci si sbaglierebbe a giudicare il loro progetto frutto di un folklorismo delirante. Questo immaginario è una fabbrica di realtà. E non è la prima volta che una visione escatologica lacera la regione: se i crociati hanno voluto conquistare la Terra santa, “purificarla “dai musulmani, dai giudei e dai “cattivi cristiani” era anche per affrettare il ritorno di Cristo.

E dal lato palestinese, queste soluzioni «creative» trovano un interesse?
Sì. Sempre più i giovani palestinesi pensano che Arafat sia caduto in una trappola e abbia perso la sua scommessa – abbandonare la rivendicazione di una sovranità palestinese dal mare al Giordano, in cambio di uno Stato sovrano sul 22% del territorio. Sanno che una parte dei coloni non se ne andrà mai. Che occorre quindi battersi perché i Palestinesi ottengano gli stessi diritti degli israeliani, o nell’ambito di uno Stato binazionale, o nell’ambito di due Stati confederati. Tali progetti alternativi hanno dato luogo a numerose relazioni e numerosi studi che sono sul tavolo di tutte le cancellerie. Negli Stati Uniti sono sostenuti dalla comunità ebraica progressista e da numerosi membri della diaspora palestinese.

Quale potrà essere l’atteggiamento dell’Iran, unica potenza che continuava a difendere la causa palestinese, mentre paesi arabi facevano la pace con Israele?
Gli eventi del 7 ottobre hanno mostrato che gli accordi di Abraham non avevano futuro: una pace tra Israele e i governi autocratici, basata su contratti di armamenti e di nuove tecnologie, tralasciando la causa palestinese, non poteva che essere una pace fittizia e quindi effimera. L’Iran ha ovviamente giocato fin in fondo questa carta, con i suoi alleati -Hamas, Hezbollah, gli Houthi. Ma l’alfa e l’omega della strategia iraniana non è la Palestina ma il nucleare. I dirigenti iraniani sono prossimi a dotarsi dell’arma nucleare, ma vogliono di più: essere considerati al loro giusto valore come potenza scientifica, culturale, diplomatica…

Quale uscita dalla crisi vede?
“Non sapevano che era impossibile, allora lo hanno fatto”, diceva Mark Twain. Di fatto si può immaginare che, entro i prossimi dodici mesi, tutti i problemi si risolvano. Netanyahu viene sostituito da Benny Gantz, ex capo di stato maggiore, il quale prolunga la pressione militare su Hamas, ma che dice alla sua popolazione: “Non si potrà gestire la striscia di Gaza e i suoi 2,3 milioni di abitanti. Non si è riuscito ad espellerli verso l’Egitto, che ha rifiutato. Bisogna quindi trovare un’altra soluzione.” Gantz libera Marwan Barghuti, 64 anni, imprigionato da più di venti anni, il “Mandela palestinese”, indenne dalla corruzione che corrode l’Autorità palestinese. Un combattente legittimo, un politico, uno stratega che conosce perfettamente gli israeliani e parla benissimo l’ebraico.
Uno Stato palestinese viene riconosciuto dalla comunità internazionale nelle frontiere del 1967. Mahmoud Abbas può ritirarsi su questa vittoria diplomatica e Barghuti è nominato presidente.
Mohammed Dahlan è a capo di Gaza: è un membro di Fatah, nato a Gaza, vicino agli emirati arabi uniti dove si è rifugiato e vicino ai servizi segreti israeliani. E Nasser al-Kidwa, nipote di Arafat, che è stato ambasciatore palestinese all’ONU, diventa capo del governo. Immediatamente iniziano i negoziati globali. Con l’Iran, sul nucleare e i prigionieri. Con l’Arabia saudita, per completare gli accordi di Abraham, ecc. Sono le “astuzie della storia”. Talvolta la situazione è talmente tragica, e il rischio di non far nulla talmente alto che possono aprirsi nuove opportunità. Certamente, innumerevoli ostacoli possono impedire che questo schema diventi realtà. Ma esiste.

Che diventa Hamas in questa configurazione?
E che cosa diventa l’estrema destra israeliana? Quando esistono opzioni politiche, gli estremisti, islamisti e suprematisti ebrei, tornano al loro posto: nei margini.

L’influenza occidentale è oggi in declino. Gli Stati Uniti, che hanno fatto di tutto per uscire dal Medio-Oriente, vi sono trascinati loro malgrado. E si vede Vladimir Putin rallegrarsi dell’apertura di questo nuovo fronte. Il mondo non rischia di essere ancora meno stabile?
Non è possibile trattare il problema del Vicino-Oriente con i vecchi schemi del XX secolo. Ma non vedo ragioni per autoflagellarci. Dal 7 ottobre Biden dà prova di una maturità e di una lucidità impressionanti. La sua gestione della crisi è stata magistrale: è riuscito ad impedire l’estensione regionale del conflitto che era quasi programmata, spostando due portaerei in prossimità dei punti caldi. Sta cambiando posizione, lentamente ma sicuramente, passando da un sostegno incondizionato a Israele ad un atteggiamento sempre più esigente.

Rimane il problema del sostegno all’Ucraina, nel momento in cui le munizioni cominciano a scarseggiare…
È vero che il livello dei bombardamenti su Gaza è demenziale, fino a 600 azioni al giorno, praticamente tutte con armi americane. Gli Israeliani hanno soltanto alcuni giorni di riserva strategica. Se gli Americani sospendono gli invii, in tre giorni finisce tutto. A tutto ciò si aggiunge il ribaltamento dell’opinione pubblica internazionale, man mano che ci si allontana dal 7 ottobre e che il numero dei morti cresce inesorabilmente a Gaza.
Tutto ciò costringe l’amministrazione americana a riflettere ad una soluzione politica. Gli Ucraini sono legittimamente preoccupati, e non solo perché devono condividere le munizioni americane con Israele. Non ci si può immaginare che Putin accetti una soluzione politica nel Vicino Oriente se una “soluzione” soddisfacente non gli viene proposta in Ucraina… Ha purtroppo una grande capacità di nuocere e ancora parecchie carte in mano -come l’Azerbaigian che può mobilitare contro l’Armenia…

Sull’anno 2024 pesano gravi incertezze…
Continueremo ad assistere ad orrori, e il rischio grande è di vedere il mondo sfracellarsi totalmente nel 2024: Trump rieletto, i messianici al potere in Israele, Hamas rinvigorito, raggiunto dallo Hezbollah… Ma il livello di rischio è tale che le coscienze si mettono all’opera. Anche se Biden fosse battuto in novembre, sarà attivo sino alla trasmissione del potere nel gennaio 2025. Questo gli lascia un anno, un tempo che, visto quanto succede dal 7 ottobre, è un’eternità. Il peggio è davanti a noi, ma il peggio non è mai sicuro.

Vincent Lemire è docente di storia all’Università Gustave-Eiffel, dirige il progetto europeo Open Jerusalem. È stato direttore del Centro di Ricerca francese a Gerusalemme. Ha pubblicato tra l’altro Au pied du Mur. Vie et mort du quartier maghrébin de Jérusalem, 1187-1967 (Seuil, 2022) e il fumetto Histoire de Jérusalem (Editions Les Arènes, 2022), in corso di traduzione in una decina di lingue.

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