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Gaza in via di «somalizzazione»

a cura di in data 23 Maggio 2024 – 10:41Nessun commento

Giovedì 23 maggio 2024 – «Le Monde»
Gilles PARIS

Il testo è stato tradotto da Hélène Colombani Giaufret.

Dopo l’uso della forza sino all’irragionevolezza viene il tempo del disordine
Se Israele è incapace di proporre una transizione è perché non vuole immaginare “il giorno dopo”

Più passano i giorni e più salta agli occhi il parallelo tra la reazione degli Stati Uniti dopo l’11 settembre e quella di Israele dopo il 7 ottobre. Dopo l’uso della forza sino all’irragionevolezza, che si è tradotto a Gaza con uno spaventoso bilancio umano, viene il tempo del disordine essendo mancata la previsione “il giorno prima del giorno dopo”, cioè la transizione verso un obiettivo politico.

In Irak e in Afghanistan, gli Stati Uniti avevano perlomeno il merito di avere un progetto: quello di imporre dall’alto e con la forza la democrazia, anche se questo si è infranto in un tempo record contro una realtà ben più complessa di quanto era stato preventivato dagli strateghi da studio neoconservatori. A Gaza, territorio che si suppone lo conosca almeno un po’, Israele palesa ormai la sua incuria, al punto di fare traballare il suo gabinetto di guerra installato dopo la maggiore strage di civili e la più importante presa di ostaggi della storia dello Stato ebraico.

Ne fanno fede i combattimenti che l’esercito israeliano è costretto a condurre da parecchie settimane nel nord del territorio, laddove proprio si era concentrato nei primi mesi della sua offensiva devastatrice. Questa guerriglia persistente che costituisce un ritorno alla fonte – essendo Hamas nato sotto l’occupazione israeliana – relativizza sostanzialmente l’argomento del governo israeliano secondo cui un’ampia operazione militare a Rafah, ultima città ad essere sfuggita al suo rullo compressore, avrebbe permesso una   “vittoria totale” contro la milizia islamica.

Sarebbe probabilmente così se uno degli imperativi di Hamas fosse di preservare il suo dominio su Gaza, non solo sul piano della sicurezza, ma anche su quello amministrativo. La decisione del 7 ottobre 2023, l’oltranzismo dell’ala militare, il suo uso della popolazione e delle infrastrutture ospedaliere o educative come scudi dicono che così non è.

La “somalizzazione” di una fascia di Gaza abbandonata al caos e ad una violenza permanente può ancora essere evitata partendo da una constatazione: se lo Stato ebraico è incapace di proporre una transizione è perché lo Stato ebraico è categoricamente contrario ad immaginare un ”giorno dopo” dotato di una prospettiva politica. E che questo “giorno dopo” deve limitarsi a negoziati interminabili riguardo al volume di aiuti umanitari autorizzati ad accedere a Gaza, o all’utilizzo del minimo sacco di cemento nel compito da Sisifo della sua ricostruzione.

Tutto dovrebbe però mirare ad evitare di ricadere nel pantano venutosi a creare dagli ultimi negoziati di pace, più di dieci anni fa, di cui si è visto quanto ha prodotto per gli Israeliani come per i Palestinesi. Traendo le conseguenze del fallimento degli accordi di Oslo, il cui punto di arrivo non era esplicitamente menzionato nel mutuo riconoscimento d’Israele e dell’Organizzazione di Liberazione della Palestina (OLP), nel 1993, alcuni, come l’ex ambasciatore di Israele in Francia Eli Barnavi, raccomandavano il riconoscimento preliminare di uno Stato palestinese a lato di Israele. Questo avrebbe costituito per Hamas una disfatta ben più significativa di quella che Israele tenta di ottenere con le armi.

Altri, segnatamente nella rivista Foreign Affairs, pensano all’attivazione di un dispositivo di tutela delle Nazioni Unite sui territori conquistati con la forza nel 1967. In occasione del vertice della Lega Araba a Bahrein, giovedì 16 maggio, l’idea di una forza di interposizione sotto mandato delle Nazioni Unite è stata anche proposta, così come l’organizzazione di una nuova conferenza internazionale, in mancanza di aver convinto gli Stati Uniti della pertinenza di un piano che avrebbe inscritto anche nei suoi principi la creazione di uno Stato palestinese nelle frontiere del 1967.

Perché il principale ostacolo di fronte a queste iniziative non risiede negli uffici del primo ministro israeliano ma alla Casa Bianca, dove si accontenterebbero palesemente di un ritorno al 6 ottobre. Joe Biden sta costantemente alla larga da un ruolo di arbitro imparziale, a prescindere delle sue relazioni con Benyamin Netanyahu e le veementi proteste del primo ministro israeliano quando l’astensione degli Stati Uniti ha permesso l’adozione di una risoluzione dell’ONU che esigeva un “cessate il fuoco immediato” (che ancora si aspetta) o quando gli Stati Uniti hanno sospeso una consegna di bombe al loro alleato israeliano, all’inizio di maggio.

Più di un decennio perso

Il presidente americano sarebbe tuttavia l’unico suscettibile di produrre risultati. Ricevendo ostentatamente in marzo, a Washington, uno dei rivali del capo del Likud, Benny Gantz, opposto quanto Netanyahu alla prospettiva di uno Stato Palestinese, l’amministrazione americana ha peraltro segnalato che il suo problema con Netanyahu era più di forma che di contenuto.

L’amministrazione americana non è l’unica a porre problemi. Gli Europei, che contribuiscono massicciamente a sostenere l’Autorità Palestinese, potrebbero ugualmente manifestare la loro preoccupazione di fronte al disastro in corso altrimenti che con comunicati che nessuno legge. Non fosse altro che condizionando questo sostegno indispensabile all’organizzazione appena fosse possibile di elezioni che permetterebbero di liquidare più di un decennio perso, o meglio di rifondare l’OLP, invece di aspettare che Hamas ne finisca col prenderne la guida in mancanza di altra soluzione.

Durante quei dieci anni, ognuno si è rassegnato, in occasione di ogni guerra di Gaza come negli intervalli, a lasciare libertà d’azione a Israele. Ne è risultato una mummificazione dell’Autorità Palestinese, il rafforzamento militare di Hamas, il suo pugno di ferro sempre più pesante su Gaza, il proseguimento della colonizzazione in Cisgiordania e la crescita di una estrema destra suprematista ormai presente e forte nelle istituzioni dello Stato ebraico. Bel lavoro!

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