Riflessioni su Silvia Romano e il futuro della cooperazione
Il Secolo XIX, 23 maggio 2020 – La liberazione di Silvia Romano impone una riflessione sul tema della sicurezza di chi svolge attività di cooperazione internazionale. Per evitare che prevalga la tesi: “Se le vanno a cercare, è meglio che se ne stiano a casa”. Oggi più che mai, invece, c’è bisogno di solidarietà “a casa loro”. Nel libro “Africa e Covid-19. Storie da un continente in bilico”, racconto quanto preziosa sia l’attività della cooperazione italiana contro la pandemia, in campo sanitario e in quello della sensibilizzazione delle popolazioni. Ma per dare valore a questo patrimonio, così scarsamente considerato e finanziato, è bene anche riflettere su quel che non va.
Cominciando da una frase della madre di Silvia: “Mia figlia è stata mandata allo sbaraglio”. Chi fa cooperazione sa che mette in discussione la sua vita, in situazioni in cui non ci sono certezze di sicurezza. Proprio per questo va messo in atto tutto quanto è possibile per gestire e minimizzare i rischi: l’enfasi va posta sull’etica della responsabilità rispetto alle conseguenze delle proprie scelte e sulla necessità di una preparazione specifica sul tema della sicurezza.
Nel 2015 le tre reti delle Ong AOI, CINI, LINK 2007 promossero con l’allora Ministro Gentiloni la conferenza “La sicurezza è una cosa seria”. La strada non può essere che quella del protocollo firmato allora: “l’indispensabile equilibrio tra l’imperativo umanitario che obbliga a perseverare nell’azione di aiuto e di protezione e la valutazione del rischio per gli operatori”, nella consapevolezza che accanto ai cooperanti delle organizzazioni ben strutturate esistono anche gruppi di volontariato che, pur “nella positività delle loro azioni e nella generosità e fratellanza che esprimono, possono mettersi inavvertitamente in situazioni di rischio eccessivo se non sono inseriti o collegati a un’organizzazione preparata”.
Non c’è dubbio: la onlus che ha inviato Silvia in Africa si è rivelata generosa ma non preparata. Ha detto il Presidente della Focsiv, la Federazione del Servizio Internazionale dei Volontari, Gianfranco Cattai: “Nessuna delle nostre associazioni avrebbe fatto partire una ragazza da sola e per giunta diretta ad un Paese con alcune tensioni interne come il Kenya. Ogni viaggio è un investimento per la vita di chi va e ci prendiamo a carico ognuno di loro assumendoci ogni responsabilità.”. Così Silvia Stilli, portavoce di AOI: “Bisogna mettere i volontari nella condizione di avere conoscenze di base essenziali. Non si possono mandare allo sbaraglio, ci rimettiamo tutti”.
Ma c’è una seconda considerazione da fare, come ha suggerito Pierfranco Pellizzetti su “Micromega” citando un grande pensatore del Novecento, Albert Hirschman, per il quale “l’unico intervento utile per trarre popolazioni da condizioni sub-umane è quello di aiutarle a esprimere da sé sentieri di crescita materiali compatibili con la loro cultura e -per così dire- il genius loci”. I popoli del Sud del mondo non devono essere “oggetto” ma “soggetto” del progetto di cooperazione: la capacità dei cooperanti dev’essere quella di sollecitare l’autonomia dei popoli, senza imporre la “nostra” idea occidentale di sviluppo. Se si lavora così si diventa parte di un territorio, alla pari con le popolazioni locali, che ti sentono uno di loro e faranno di tutto per proteggerti con le loro nude mani.
Non basta quindi, la “solidarietà del cuore”. Serve la sicurezza. Che si ottiene con la professionalità ma anche e soprattutto dando ogni supporto alla capacità di autogoverno della vita di ogni popolo e di ogni persona.
Giorgio Pagano
Cooperante, già Sindaco della Spezia
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