Thomas Sankara, oltre il mito
Africa, 18 febbraio 2023
Veniva assassinato poco più di trentacinque anni fa il Presidente Sognatore (e Rivoluzionario) del Burkina Faso. «Osare inventare l’avvenire»: i suoi appassionanti discorsi invitavano i concittadini e gli africani tutti a rompere le catene dell’oppressione occidentale, restituendo orgoglio e senso di appartenenza a milioni di poveri contadini, ma anche a superare culture e tradizioni retrograde.
di Mariachiara Boldrini
Si è concluso ad aprile 2022 uno storico processo che – a poco più di 35 anni dal suo assassinio, il15 ottobre 1987 – ha reso giustizia a Sankara, con la condanna del suo “amico” Blaise Compaoré (che ne prese il posto, imponendosi come dittatore), e di due suoi fedelissimi, Hyacinthe Kafando e Gilbert Diendéré.
Si chiamava Thomas Isidore Noël Sankara, e raccontare chi è stato è impresa ardua: tanto è stato detto e scritto su di lui che riesce ormai difficile scindere l’uomo dal mito.
Soldato rivoluzionario
Thomas era un ragazzo dell’Alto Volta, nato il 21 dicembre 1949, figlio di madre mossi e di padre peul (quest’ultimo, veterano della Seconda guerra mondiale ed ex prigioniero di guerra),
terzo di dieci figli. I racconti familiari ritraggono un bambino ricco di sensibilità, che aiutava nelle faccende domestiche la madre e la sorella diversamente abile, ma anche un bambino lasciato libero di assaporare la libertà, e che non esitava a protestare con i coetanei bianchi per una bicicletta che i genitori non potevano comperargli.
Immerso nei valori della fratellanza cristiana, cresce a Gaoua, nel nord del Paese, una zona desertica di contadini poveri. Rinuncia alla possibilità offertagli di studiare in seminario e tenta di accedere alla facoltà di Medicina. Non ci riesce. Persegue così, contro il volere paterno, quella che Mario Giro, africanista ed esperto di Burkina, dice essere «l’unica strada alternativa per ricevere una formazione nel Burkina di quegli anni»: la carriera militare. All’Académie Militaire di Antsirabe, in Madagascar, si forma come soldato e, contemporaneamente, come rivoluzionario. Assiste alle rivolte dei lavoratori e degli studenti contro il presidente Philibert Tsiranana, fedele alla Francia, il cui regime cade nel 1972. Legge Marx e Lenin, e attratto da Lumumba si avvicina al socialismo africano e a quegli ideali di uguaglianza e libertà che lo segneranno per tutta la vita. Molti anni dopo, dirà che «un militare senza formazione patriottica è soltanto un criminale in potenza».
Uomo di cultura
Sankara era uomo di profonda cultura, divoratore di libri e fervente intellettuale, uno che negli anni della formazione, nell’Africa degli anni Settanta, leggeva Il conte di Montecristo e le poesie di Novalis, e suonava musica afro-jazz con la chitarra di gioventù regalatagli dal padre. Era pieno di inventiva e da presidente cambiò nome, inno e bandiera al suo Paese: l’Alto Volta divenne Burkina Faso – “Paese degli uomini integri” – dall’unione di due parole in moré e in dioula, le lingue più parlate nel Paese; l’inno divenne una ballad contro il neocolonialismo che incitava a prendere la strada «verso l’orizzonte della felicità»; il vessillo nazionale assunse una nuova configurazione, con il rosso simbolo del sangue versato dal popolo burkinabè, il verde dei campi e la stella emblema di integrità.
Sankara era prima di tutto un rivoluzionario, che parlava a nome di quanti soffrivano, dai «neri dei ghetti, considerati poco più che animali» a «coloro che avevano perso il lavoro in un sistema strutturalmente ingiusto e congiunturalmente in crisi».
Terzomondista convinto, in uno storico discorso alle Nazioni Unite fece scalpore incitando i popoli oppressi, «eredi di tutte le rivoluzioni del mondo», a unirsi in difesa del Nicaragua sandinista, della Palestina oppressa, del peregrinante popolo sahrawi e dei neri sotto l’apartheid sudafricana.
Sfida all’Occidente
Era un africano che difendeva gli africani, ricordando loro chi erano e a cosa potevano aspirare. Promosse, quando ancora non era un mantra delle politiche di sviluppo internazionale, l’idea di sviluppo endogeno, accettando solo aiuti che aiutassero a eliminare l’aiuto. Voleva un’alternativa al modello di modernizzazione capitalista esportato nel continente dai colonizzatori e, in un’ottica quasi autarchica, tentò di nazionalizzare le risorse, trasformando le materie prime e consumando i prodotti finiti direttamente in Africa. Impose così ai militari di allevare suini per produrre prosciutto e nei viaggi di rappresentanza indossò sempre, come aveva fatto Gandhi prima di lui, l’abito tradizionale di cotone, di cui il Burkina era un grande esportare.
Nel 1986, ad Addis Abeba, in un celebre discorso che porterà alla sua distruzione politica e innescherà la scintilla del suo omicidio, espose con ardore la sua proposta di non pagare il debito estero, cosicché gli europei potessero invece ripagare il fardello che avevano imposto agli africani. «Sono gli altri ad avere nei nostri confronti un debito che non potranno pagare: il debito del sangue che abbiamo versato». Il tentativo di far uscire il Paese dall’isolamento con la costruzione di una ferrovia non riuscì, a causa del suo rifiuto dei piani di aggiustamento strutturali voluti dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale. «Le riforme che queste istituzioni internazionali ci chiedono le facciamo da soli», affermò, «senza dover ripagare in futuro alcun debito».
La ricerca della felicità
Carismatico, ribelle, idealista ma con un pragmatismo prorompente, insorgeva senza mai piangersi addosso. Di Sankara rimane, oggi, soprattutto il sogno. La sua biografia è costellata di slogan che trasudano ambizione. «La politica ha senso solo se ha l’obiettivo di rendere felice la popolazione», diceva. «Dobbiamo osare inventare l’avvenire. Tutto quello che viene dall’immaginazione dell’uomo è realizzabile dall’uomo».
Divenne presidente a 34 anni, in piena Guerra fredda, di un Paese composto in gran parte di contadini, «un cuscinetto tra la Costa d’Avorio e il Mali – spiega Marco Aime, antropologo esperto di Burkina –, un Paese povero che non sarebbe mai dovuto esistere». Come dirà lo stesso Sankara, l’Alto Volta era la «quintessenza di tutti i mali del mondo»: la speranza media di vita era di quarant’anni, due bambini su dieci morivano prima di compierne cinque e c’era un medico ogni cinquantamila abitanti. In tale contesto Sankara sarà, secondo l’antropologo, «uno dei migliori leader africani post-indipendenza» e perseguirà la «ricerca della felicità» con un programma denso di iniziative.
Impose, per esempio, tagli drastici agli stipendi del settore pubblico e famosi sono i suoi “tour nei bistrot” vicino agli uffici governativi per stanare i dipendenti che oziavano in orario di lavoro. S’inventò addirittura un’asta per vendere le auto di rappresentanza governative, sostituite con più sobrie Renault 5, e finanziare così una delle più grandi campagne di vaccinazioni infantili contro la polio, la meningite e la rosolia mai viste nel continente, ottenendo il plauso dell’Unicef.
Femminista ed ecologista
Era un ecologista ante litteram. Creò un Ministero dell’Acqua e, convinto che la fame fosse il peggior nemico del popolo, s’impegnò a garantire due pasti e cinque litri d’acqua al giorno ad ogni cittadino. «La lotta contro la desertificazione», affermava, «è una lotta contro l’imperialismo, oscuro potere mondiale che sfrutta gli esseri umani e mai si è fatto scrupoli a sfruttare anche l’ambiente». Creò la politica “un uomo, un albero” per far fronte alla desertificazione: ogni cittadino e ogni straniero in visita, compresi uomini di Stato e delegazioni di rappresentanza, dovevano piantare un albero nelle aride terre del Burkina. Fu la più grande campagna di rimboschimento che il Paese avesse mai conosciuto: furono piantati 10 milioni di alberi.
Ed era un femminista convinto: lottava contro le diseguaglianze di genere. «Le donne subiscono due volte le conseguenze nefaste della società neocoloniale», diceva. «Provano le stesse sofferenze degli uomini e per di più sono sottoposte dagli uomini a ulteriori sofferenze». Si batté così per demolire la cultura di esclusione in cui le donne burkinabè erano immerse, anche inserendone molte nel suo esecutivo. Organizzò iniziative innovative per ripensare il ruolo sociale dele donne, come le giornate in cui era chiesto ai mariti di recarsi al mercato e occuparsi della casa al posto della moglie. Lottò contro retaggi feudali in uso nelle campagne, come le mutilazioni genitali femminili, e fu criticato dai più fedeli collaboratori per la rapidità con cui invocava il cambiamento. Le donne che non capivano le politiche messe in campo per la loro emancipazione erano infatti additate come «schiaviste di sé stesse».
Un Robespierre burkinabè
Si ispirava a Gandhi, ma non al suo pacifismo. Era convinto della necessità della violenza per imporre una buona politica: il popolo, ben educato, ne avrebbe presto capito la validità. «Teneva molto alla scuola e ne costruì molte», racconta Mario Giro, «ma concepiva lo Stato come uno Stato forte, che educava permanentemente i cittadini ai limiti della propaganda, in un’ottica completamente antiliberale».
Era un gran comunicatore, convinto che “la forza degli argomenti” potesse convincere il popolo delle sue azioni. Da giovane era stato caporedattore del giornale scolastico e da presidente si inventò l’idea del “microfono aperto”, con una radio, “Entrez et Parlez”, aperta h24, dove i cittadini potevano intervenire e dire la propria; raramente, però, la discussione arrivava a influenzare le politiche adottate.
«Era incorruttibile e non ammetteva eccezioni», dice ancora Giro. «Un Robespierre burkinabè». Creò Comitati locali con Tribunali militari per stanare chi frodava il fisco e i processi giudiziari furono sostituiti con processi popolari di stampo militare, che condannarono, fra i tanti, lo storico Joseph Ki-Zerbo, costretto a lasciare il Paese mentre la sua biblioteca veniva saccheggiata. Invitato più volte dal Presidente Rivoluzionario a tornare in patria, il padre della storiografia africana vi rientrerà solo dopo la morte di Sankara, che – denunciò – aveva architettato un processo politico contro di lui.
Ombre di autoritarismo
Sankara non si fece fermare dalle violazioni dei diritti umani perpetrate dai Comitati locali, dove i militari agivano per lo più autonomamente e senza una formazione politico-culturale. Le critiche levate contro di lui riguardavano l’autoritarismo dei suoi metodi e la mancanza di democrazia, ma i diritti civili erano spesso considerati dal Presidente Sognatore privilegi borghesi di origine neocoloniale. Secondo Aime fece un grave errore ispirandosi alla rivoluzione cinese e «trasformando un buon intento in un abuso di potere», con un atteggiamento impositivo che non accettava il dibattito. Nel tentativo di smantellare il sistema di privilegi feudali che caratterizzava l’Alto Volta quando andò al potere, entrò in conflitto con i capivillaggio e con i sindacati, che inizialmente lo avevano sostenuto. «Era pur sempre un militare socialista che aveva creato un sistema maoista in cui gli studenti universitari dovevano aiutare i contadini nei campi per conoscerne le sofferenze, senza essere pagati. Non vi era libertà di scelta», afferma Giro.
«Da una parte», spiega l’africanista, «l’udienza che ha condannato Compaoré per la sua uccisione è stata molto sentita nel Paese, i giovani che non hanno mai conosciuto Sankara sono affascinati dalla portata del suo pensiero; dall’altra ci sono invece i genitori, secondo i quali le nuove generazioni non sanno come si viveva sotto Sankara. Secondo alcuni, Compaoré ha addirittura salvato il Paese, perché Sankara sarebbe diventato ben più autoritario di Sékou Touré» – il crudele dittatore guineano.
Quale eredità
Quando parlò alle Nazioni Unite, Thomas Sankara concluse, col pugno chiuso: «O la patria o la morte. Noi vinceremo», come diceva Che Guevara decenni prima. E come il Che morirà giovane, andando a fomentare un mito. Tuttavia, secondo Aime, gli ideali sankariani erano meno definiti di quelli del Che: il leader burkinabè della Rivoluzione Democratica e Popolare diceva di ispirarsi al Vangelo così come al Corano, non era un guerriero ma un buon politico, e il suo regime era indirizzato alla prassi e ad una volontà di cambiamento. «Non ci è dato sapere se gli ideali di libertà e uguaglianza di cui si faceva portatore avrebbero nel tempo lasciato il posto alla ferocia di una dittatura, né ha senso ragionare in termini occidentali sul deficit democratico di cui egli stesso si rendeva conto e che non aveva interesse a colmare», afferma l’antropologo.
I due esperti concordano sull’eredità lasciata da Sankara nel Burkina odierno: «Un senso di appartenenza. I burkinabè si sentono diversi dai maliani e dai nigerini, sentono di appartenere al Burkina Faso; c’è un orgoglio nazionale, più che un sentimento etnico».
“Questa terra di dignità appartiene a tutti gli uomini liberi”, si legge appena atterrati all’aeroporto di Ouagadougou. Quel ragazzino sognatore divenuto presidente, poco più che trentenne, e scomparso prematuramente pochi anni dopo ha avuto il merito di ridare ai burkinabè e all’Africa tutta la dignità. «Ha promosso gesti simbolici che hanno fatto sì che la popolazione si raccogliesse attorno a un’idea e a valori validi ancora oggi, contro i vecchi e nuovi colonialismi», dice Aime, finendo per diventare, conclude Giro, «un’icona di integrità morale, nel sogno di una speranza che non muore, in un momento storico il cui il materialismo e l’individualismo sono, oggi ancor più di ieri, onnipresenti».
(Mariachiara Boldrini)
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