Nel Sahel si incrociano tutte le crisi del nostro secolo
Domani, 28 ottobre 2022,
di Camillo Casola
Governance e deterioramento ambientale
L’area compresa tra i territori di Burkina Faso, Ciad, Mali, Mauritania e Niger è oggi una delle più vulnerabili al mondo. Gli effetti del riscaldamento globale hanno alternato negli ultimi sessant’anni fasi di siccità e precipitazioni estreme. La conflittualità nella regione non dipende però solo dalle variazioni climatiche, ma anche dall’inefficienza politica
In larga parte caratterizzato dalla presenza di zone desertiche o semi-desertiche, il Sahel – l’accezione qui assunta comprende i territori di Burkina Faso, Ciad, Mali, Mauritania e Niger – è considerato una delle aree più vulnerabili al mondo, sotto un profilo climatico e ambientale. Elemento strutturale ne è la successione di fenomeni climatici estremi, crisi di siccità e intensi episodi pluviometrici, che generano un impatto profondo sulla disponibilità di mezzi di produzione e sussistenza di popolazioni fortemente dipendenti dall’agricoltura pluviale, in assenza di infrastrutture di rilievo per lo stoccaggio delle risorse idriche, e dall’allevamento transumante.
Crisi a intervalli
Negli ultimi sessant’anni, gli effetti del surriscaldamento globale hanno prodotto un incremento delle temperature medie annuali nella regione, tra 0,7 gradi in Ciad e Mali e 0,9 gradi in Mauritania. In un contesto di forte variabilità interannuale, i livelli di precipitazione risultano mediamente scarsi, intorno agli 800-1.000 mm di pioggia nella zona meridionale e 200 mm in quella più a nord, dovuti per l’80-90 per cento del totale a temporali concentrati nella stagione delle piogge, da giugno a settembre. In un’ottica di lungo periodo, l’osservazione dei dati disponibili mostra come le caratteristiche pluviometriche della regione non abbiano seguito un andamento stazionario nel tempo, ma al contrario si siano modificate a intervalli decennali: la prima parte del Novecento è stata segnata da anni (Cinquanta e Sessanta) estremamente piovosi, seguiti da crisi di siccità di particolare profondità dalla seconda metà del secolo, mentre gli ultimi trent’anni sono stati scanditi dall’alternanza di fasi aride e periodi di precipitazioni intense.
Cause atmosferiche
A lungo le crisi climatiche in Sahel sono state imputate alle crescenti pressioni demografiche e a interventi antropici, allo sfruttamento intensivo delle aree di pascolo, alla conversione di zone forestali in terreni agricoli: lo sradicamento della vegetazione e la degradazione dei suoli indotta dalle attività umane avrebbero determinato un incremento della quantità di radiazioni solari riflesse dal suolo, minore assorbimento, minore rilascio di umidità nell’atmosfera e conseguente riduzione dei fenomeni di convezione responsabili delle precipitazioni. In realtà, l’interpretazione oggi prevalente associa le manifestazioni climatiche estreme nella regione alla variabilità della circolazione atmosferica, connessa alle oscillazioni della zona di convergenza intertropicale – un ammasso nuvoloso che circonda l’equatore – e alle variazioni di temperatura degli oceani. Il regime delle precipitazioni in Africa occidentale e in Sahel trae origine dall’umidità che il vento di monsone trasporta dall’oceano Atlantico settentrionale e dal Golfo di Guinea alla regione: l’acqua evapora, la massa d’aria risale, si raffredda, condensa e ricade sotto forma di pioggia. Un aumento della temperatura oceanica favorisce i moti convettivi di aria umida, che determinano un incremento dell’intensità e della frequenza delle precipitazioni. Al contrario, temperature oceaniche più basse significano minore trasferimento di umidità dall’oceano al monsone, con effetto sull’inaridimento del clima sulla terraferma. In altre parole, più l’oceano Atlantico settentrionale è caldo, maggiore è il carico di umidità evaporata dalla superficie e trasportata sulla terra dal vento, più piogge ci si potrà attendere in Sahel. La correlazione con i gas serra Una correlazione indiretta sembrerebbe sussistere tra la variabilità decennale e interannuale dei livelli delle precipitazioni e le emissioni di gas serra e aerosol di solfati derivanti dall’uso di combustibili fossili. Secondo Alessandra Giannini e Alexey Kaplan, nel dopoguerra i gas serra hanno favorito il riscaldamento degli oceani tropicali e impedito i processi di convezione; al contempo, l’emissione di particelle solide fini (aerosol) nei sistemi industrializzati di Europa e nord America ha avuto ad effetto la dispersione delle radiazioni solari e il raffreddamento dell’Atlantico settentrionale. Questa combinazione di circostanze avrebbe dato origine alle ondate di siccità nella regione nel corso della seconda metà del secolo, con ripercussioni importanti sulla contrazione dei livelli di produttività agricola e sulla destrutturazione dei modi di vita nomadici.
Le crisi degli anni Novanta
Particolarmente grave, per durata ed estensione della superficie coinvolta, è stata la crisi occorsa a cavallo tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta, che ha interessato la gran parte delle zone rurali in Sahel. Milioni di individui sono rimasti vittime di una violenta carestia, che ha avuto a effetto una forte riduzione dei livelli di produzione e ha eroso risorse alimentari e idriche. L’economia pastorale ha subìto un totale collasso per le conseguenze della siccità, aggravate ulteriormente da una seconda crisi, nei primi anni Ottanta. Gli shock ambientali registrati tra il 1969 e il 1974, e in seguito tra il 1981 e il 1984, hanno imposto una destrutturazione dei sistemi produttivi legati al pastoralismo transumante, soprattutto a causa della perdita di enormi quantità di bestiame da parte delle comunità di allevatori nella regione. E hanno favorito, in molti casi, l’attivazione di dinamiche migratorie verso l’Algeria e la Libia – nel caso, ad esempio, delle comunità tuareg del nord Mali, che nei primi anni Novanta avrebbero dato vita all’insurrezione contro il governo di Bamako – e migrazioni stagionali verso i centri amministrativi situati in prossimità dei territori comunemente adibiti alle attività pastorali. In altri, gruppi semi-nomadi hanno fatto fronte alla crisi dei sistemi pastorali attraverso processi di sedentarizzazione in ambiente urbano. Numerosi piccoli agricoltori, che pure avevano subìto sostanziali ripercussioni dall’impatto della crisi climatica degli anni Settanta e Ottanta sui raccolti, hanno approfittato della ripresa del settore per investire i surplus di produzione nell’allevamento: i pastori nomadi – molti tra i membri delle comunità etniche peul – che avevano visto decimati i propri capi di bestiame, con ripercussioni drammatiche sulla perdita di risorse di sostentamento da parte di interi nuclei familiari, sono stati impiegati alle dipendenze di proprietari terrieri. La graduale marginalizzazione dei gruppi pastorali in Sahel, in buona parte all’origine delle attuali traiettorie di crisi in Sahel centrale, si è sviluppata in questo contesto.
Eventi estremi recenti
Negli ultimi trent’anni una riduzione delle emissioni di particelle inquinanti nella regione dell’Atlantico settentrionale, per effetto di normative più restrittive miranti a contrastare le conseguenze dell’inquinamento sulla salute pubblica, sembrerebbe aver posto le condizioni per un riscaldamento dell’oceano Atlantico, incrementando al contempo il carico di aria umida trasportato dai monsoni sul Sahel e i livelli delle precipitazioni annuali. In questa fase, la successione sempre più frequente, e con intensità sempre maggiore, di fenomeni temporaleschi estremi, è stata causa di devastanti inondazioni e della distruzione di terreni agricoli, della compromissione dei sistemi di distribuzione di acqua potabile, del danneggiamento di infrastrutture urbane. Negli ultimi mesi, secondo i dati dell’Ufficio delle Nazioni unite per gli affari umanitari (Ocha), oltre 340mila persone hanno subìto le drammatiche conseguenze di alluvioni senza precedenti in Ciad – 2.700 ettari di terre coltivate distrutte; abitazioni, scuole, centri sanitari devastati; nuclei familiari sfollati – e più di 100mila tra le regioni di Maradi, Zinder, Tillabéri e Tahoua in Niger, senza contare i danni registrati nel centro- nord del Mali, in Burkina Faso o in Mauritania.
Progetti e studi
Processi strutturali di desertificazione in Sahel sono stati a lungo considerati espressione di una tendenza irreversibile, che nel corso degli anni ha dato impulso all’adozione di normative stringenti a discapito delle comunità rurali, ritenute responsabili della deforestazione e del sovrasfruttamento di suoli e aree di pascolo, e suggerito l’implementazione di politiche di assistenza e piani di intervento internazionali allo scopo precipuo di “rinverdire” le aree saheliane. Tra questi, il Great green wall for the Sahara and the Sahel initiative, un progetto di riforestazione che consiste in un ampio spettro di interventi agricoli e in oltre 8mila chilometri di alberi da piantare lungo la fascia settentrionale del Sahel, con il sostegno di organizzazioni internazionali e l’impegno finanziario assunto dagli stati membri del forum di Parigi sul cambiamento climatico. Questa narrazione è però oggi ampiamente discussa. Studi recenti suggeriscono che la presenza di vegetazione e bacini idrici in territorio saheliano risulta più consistente di quanto non fosse trent’anni fa, a dimostrazione di una forte capacità degli ecosistemi regionali di ripristinarsi in risposta a prolungati deficit pluviometrici, a prescindere dai livelli di sfruttamento antropico. Benché non restituiscano un quadro accurato, né consentano di tener conto delle oscillazioni intervenute su scala locale – in termini di adattamento della vegetazione alle condizioni climatiche, di evoluzione delle tecniche di protezione degli ecosistemi o delle iniziative di rigenerazione delle condizioni ambientali – le immagini satellitari mostrano come i margini meridionali del deserto del Sahara avanzino o recedano in corrispondenza dei livelli delle precipitazioni registrate nel periodo osservato, pur con specifiche eccezioni, ad esempio in Niger occidentale.
Il caso del lago Ciad
Significativo è il caso del lago Ciad, nella regione al confine tra Ciad, Niger, Camerun e Nigeria: tra il 1963 e il 1987 le rilevazioni hanno accertato una riduzione del 90 per cento della superficie del lago, da 22mila km² a 2.500 km², dando credito alle ipotesi di una imminente scomparsa di uno dei principali bacini idrici continentali, a causa degli effetti combinati del cambiamento climatico e dello sfruttamento intensivo delle sue acque. In realtà, il trend ha conosciuto un’inversione a partire dagli anni Novanta, e nel 2013 l’estensione osservata della superficie idrica era di circa 14mila km². La fluttuazione interannuale dei livelli delle acque del lago Ciad, dipendente per il 90 per cento del totale dall’apporto idrico garantito dal suo principale immissario, il fiume Chari, è correlata alle variazioni della pluviometria nell’area saheliana, che incide proporzionalmente sulla portata del fiume e dunque sull’area superficiale del lago. Si ritiene oggi che l’incidenza dello sfruttamento delle sue risorse idriche per l’irrigazione o l’abbeveraggio del bestiame da parte delle comunità locali sia stata sovrastimata, e che resti piuttosto trascurabile. Sviluppi futuri In un sistema climaticamente instabile, caratterizzato da forte variabilità, da situazioni di squilibrio e dalla successione di eventi estremi, risulta difficile prevedere quali sviluppi possano occorrere nel medio e lungo periodo. Uno scenario plausibile è quello di un ulteriore incremento della variabilità climatica: una successione di eventi estremi – crisi di siccità più ricorrenti e più brevi, come quella che nel 2012 ha colpito circa 18 milioni di persone nella regione, accanto a tempeste alluvionali più intense e frequenti – in un intervallo di tempo che va progressivamente riducendosi. I trend pluviometrici sembrano ricalcare, nei modelli predittivi, la tendenza osservata negli ultimi vent’anni: l’aumento dei livelli medi delle precipitazioni soprattutto nel Sahel centrale, e una situazione caratterizzata da piogge più intense e intermittenti nella fase centrale e in quella finale della stagione, e condizioni più secche durante quella iniziale.
Il nesso tra clima e conflitto
In questo quadro di riferimento, il nesso tra cambiamento climatico e conflitto, ovvero l’idea che fattori climatici fungano da driver di conflittualità in Sahel mediante l’erosione di risorse e il conseguente incremento della competizione violenta tra gruppi locali, è stata accreditata da un’ampia letteratura scientifica e ha registrato diffuso consenso tra istituzioni internazionali e policy-maker. Secondo le teorie sulla environmental scarcity, il deterioramento degli ecosistemi esposti alle conseguenze dei processi di desertificazione genera insicurezza, esacerbando vulnerabilità socio economiche e incrementando le pressioni sociali sulle risorse disponibili. I presupposti concettuali del nesso tra cambiamento climatico e conflittualità, e in particolar modo l’applicabilità al caso saheliano, necessitano però di essere problematizzati, a partire dal fatto che, come si è detto, la narrazione di un “deserto che avanza” in Sahel non sembra rispondere precisamente alla realtà, come suggeriscono studi di campo e osservazioni satellitari, e che la variabilità climatica nella regione non è causa di una degradazione irreversibile di suoli e risorse, benché d’altronde i livelli di scontro tra comunità rurali restino estremamente elevati. Se è certamente vero che le dinamiche di conflitto limitino fortemente la capacità delle popolazioni saheliane di rispondere agli effetti dei cambiamenti climatici, accertare, al contrario, l’evidenza di una correlazione causale tra climate change e conflitti violenti nella regione è più complicato. Le manifestazioni di variabilità climatica in Sahel possono fungere da acceleratore di crisi, in ragione delle ripercussioni congiunturali sui sistemi produttivi, sulle vulnerabilità delle comunità locali dipendenti da attività agricole o pastorali, sui bisogni umanitari diffusi e, più in generale, sulla fragilità degli stati. Tuttavia, è difficile ritenere con certezza che i cambiamenti climatici incidano direttamente sui livelli di conflittualità tra popolazioni rurali, e che una riduzione della disponibilità di risorse causata da fattori climatici possa meccanicamente determinare lo scoppio di conflitti per l’accesso a terre fertili e risorse idriche. In molti casi, al contrario, proprio l’aumento della disponibilità di risorse attraverso la messa in valore di aree rurali è suscettibile di alimentare forme di competizione tra gruppi sociali, generando situazioni di conflitto.
Governance disfunzionale
È piuttosto la complessa intersezione di fattori socio-economici e logiche disfunzionali di governance politica a fissare le premesse per lo scoppio di conflitti comunitari in Sahel. L’evoluzione dei modi di produzione rurali accresce la competizione e contribuisce alla trasformazione delle relazioni inter-comunitarie. Le inefficienze nella governance delle risorse si lega all’incapacità di regolare le controversie che possono insorgere tra contadini sedentari e allevatori semi-nomadi, in un quadro di priorità politiche generalmente accordate alle attività agricole a discapito di quelle pastorali, ritenute poco produttive, di scarso rilievo per l’economia nazionale e dannose per gli equilibri degli ecosistemi. La ribellione tuareg dei primi anni Novanta in Mali è spesso descritta come esempio paradigmatico di conflitto originato in un contesto di deterioramento ambientale. Alla grande siccità degli anni Settanta e Ottanta si associa infatti la traiettoria collettiva di giovani nomadi tuareg (i cosiddetti ishumar, dal francese chômeur, disoccupato), emigrati in Algeria e Libia in cerca di occupazione e prospettive, prima di rientrare in Mali, imbevuti di ideologie rivoluzionarie, e dare vita all’insurrezione contro lo stato. E tuttavia, come evidenziato da Tor Benjaminsen, più che la rarefazione di risorse, all’origine della crisi vi era soprattutto l’impatto sociale dalle politiche di sedentarizzazione e di modernizzazione dei sistemi produttivi promosse dal governo di Bamako, a discapito delle comunità nomadi e semi-nomadi del nord del paese. È paradossale notare come proprio le politiche disegnate per contrastare nominalmente gli effetti del cambiamento climatico abbiano, in molti casi, esacerbato ragioni di tensione e scontro tra comunità e autorità politiche. Abusi, estorsioni, espropriazioni e il consolidamento di reti patrimoniali (di corruzione e patronage) si moltiplicano dietro il pretesto dell’implementazione di misure di tutela degli ecosistemi saheliani, in assenza di un bilanciamento dei bisogni delle popolazioni locali. Questi squilibri, spiega Luca Raineri in un report dell’Istituto di studi sulla sicurezza dell’Ue, creano condizioni idonee all’accettazione sociale e al radicamento di gruppi jihadisti, che fanno leva sul risentimento di popolazioni rurali private di potere decisionale in merito all’uso di risorse naturali, la cui gestione è assicurata dall’alto, senza un’adeguata partecipazione e inclusione di comunità locali. In questo senso, è soprattutto nel miglioramento della governance politica di risorse e relazioni tra gruppi sociali che risiede la chiave per una riduzione della conflittualità comunitaria in Sahel, sul medio e lungo periodo. Le opinioni dell’autore sono espresse a titolo personale e non rispecchiano necessariamente quelle della Commissione europea.
(Camillo Casola)
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