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La guerra fra Etiopia e Sudan cancella il sogno occidentale

a cura di in data 30 Novembre 2021 – 23:19Nessun commento

Domani, 30 Novembre 2021, di Mario Giro (politologo)

Crisi e odio etnico

Erano parse a tutti due storie di successo che stavano diventando un modello: l’Etiopia e il Sudan dovevano segnare la strada di una nuova Africa in cui la società civile non era più oppressa da élite di regime. Il premier etiopico Abiy Ahmed Ali aveva addirittura vinto il Nobel per la pace nel 2019 dopo aver firmato un accordo definitivo con il paese fratello ma nemico, l’Eritrea. L’Etiopia stava cambiando con riforme che avevano allentato la stretta precedente. Parallelamente a Khartoum era iniziata una originale collaborazione tra militari e civili per portare il paese in una fase nuova. Ora entrambi i paesi sono candidati al collasso. Un colpo di stato militare il 25 ottobre ha deposto il primo ministro sudanese Abdallah Hamdok e gli altri membri civili del governo di transizione, formato dopo le manifestazioni popolari che avevano rovesciato il regime di Omar al-Bashir due anni fa. Dal canto suo ad Addis Abeba il primo ministro etiopico ha scatenato una guerra interna contro i tigrini che si erano rifiutati di riconoscere la trasformazione istituzionale del paese. Dopo un anno di combattimenti oggi rischia la sconfitta ma anche di essere giudicato per crimini di guerra, assieme ai leader eritrei suoi alleati.

Cattivi rapporti
La guerra in corso si è dimostrata, se possibile, tra le più atroci della storia della regione. Tutta l’area allargata del Corno d’Africa è esplosa come una bomba a frammentazione e rischia di provocare altri danni. L’amministrazione Usa, una volta vicina a entrambi, sta rivalutando i suoi rapporti con i due paesi e cerca di evitare che il conflitto (il quale purtroppo coinvolge già un buon numero di altri paesi) vada fuori controllo. Le relazioni tra Stati Uniti ed Etiopia sono incrinate: l’inviato americano per il Corno d’Africa, Jeffrey Feltman, ha dichiarato giorni fa che le parti belligeranti, forze dell’esercito regolare incluse, stanno commettendo «atrocità diffuse» nel Tigray, assieme a quelle del Tdf tigrino e alle milizie ahmara. Allarmata da tali sviluppi, Washington ha già imposto una serie di sanzioni all’Etiopia. Il governo etiopico nel frattempo ha dichiarato lo stato di emergenza lanciando un appello a tutti i cittadini di armarsi per respingere il nemico: un’ammissione di totale fallimento.

Uno stato a rischio
Se in Etiopia la crisi attuale non viene disinnescata attraverso il dialogo politico, c’è il serio rischio dell’implosione del paese e della fine di un millenario stato africano. Nelle sue dichiarazioni Feltman paventa infatti il «deterioramento dell’integrità dello stato». Per quanto riguarda il Sudan il golpe pare rientrato ma l’amministrazione Biden mantiene la sospensione dei 700 milioni di dollari di assistenza economica mentre la Banca mondiale pensa se ricominciare con gli esborsi. La comunità internazionale ha chiesto al generale al-Buhran il ritorno del governo dei civili ma l’accordo non soddisfa questi ultimi. La gente continua a manifestare per le strade perché l’esercito lasci il potere e la transizione torni sul binario iniziale di un governo a guida totalmente civile. Gli osservatori internazionali paiono più ottimisti su Khartoum che su Addis Abeba ma ogni previsione è impossibile. Emirati, Arabia Saudita, Egitto e Israele sono a vario titolo coinvolti nell’azione diplomatica per risolvere le due crisi assieme agli Stati Uniti. In Sudan c’è uno spiraglio, ma molto peggio va in Etiopia. Mentre le forze tigrine sono a 100 chilometri dalla capitale e il premier Abiy è stato costretto ad andare personalmente al fronte, cresce l’odio etnico. La guerra tra i popoli che formano la federazione etiopica è divenuta talmente distruttiva che pare difficile immaginare un ritorno alla situazione precedente. Gli oromo, alleati dei tigrini assieme ad altre fazioni regionalistiche, hanno dichiarato di voler entrare ad Addis con le armi. Per evitare una deflagrazione totale, la comunità internazionale deve impegnarsi con decisione a fermare lo scontro.

(Mario Giro, politologo)

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