La Francia lascia il Mali per tentare di ricostruire un rapporto con l’Africa
Domani, 26 febbraio 2022,
di Mario Giro (politologo)
La fine della Françafrique
Andarsene per meglio restare»: questa è la frase usata dal presidente Emmanuel Macron a proposito della fine dell’operazione Barkhane in Mali. La boutade non è anodina. Fin da quando è stato eletto all’Eliseo il leader francese ha questo in testa: finirla con la françafrique per iniziare una nuova storia che guardi al continente nero come a una grande opportunità economica e di crescita reciproca. Soprattutto vuole europeizzare la politica africana della Francia, troppo legata ai vecchi riflessi neo coloniali. La realtà che Macron si è ritrovato a gestire è più ostica di quel che pensava: una matassa di interessi da sbrogliare, legami politici sclerotizzati e la posizione dell’esercito favorevole a restare. Come avviene di solito, i più rapidi a comprendere che le cose stavano davvero cambiando sono stati i grandi imprenditori: Bolloré ha annunciato la vendita dei suoi asset africani per i quali in passato si era strenuamente battuto. Ora si tratta di costruire il “restare meglio” e non sarà facile. Spostare i soldati francesi in Niger, Benin, Togo o Costa d’Avorio è già una sfida: le opinioni pubbliche africane non vedono tale presenza di buon occhio, come si era già visto durante altre crisi. Anche Mohamed Bazoum, l’attuale presidente del Niger e forse il più filo francese tra i capi di stato dell’Africa occidentale, ha fatto sapere i suoi dubbi. Parigi deve essere cauta: le opposizioni sono sempre pronte a cavalcare il malcontento anti francese, proprio com’è accaduto in Mali dove la piazza si è rivoltata contro il presidente Ibrahim Boubacar Keita (Ibk) che pure era stato eletto a furor di popolo. I militari maliani ne hanno approfittato per il loro golpe e continuano a cavalcare la tigre anche se ciò li ha isolati al livello internazionale.
Rendersi invisibili
Nel vuoto politico si sono infilati i russi con i contractors della Wagner, già operativi in altri paesi. Si tratta di una strada in salita: alcune centinaia di russi non possono sradicare i jihadisti laddove non ce l’hanno fatta 5mila francesi. Il fenomeno jihadista è complesso e non si affronta solo con le armi: ci vuole una politica nei confronti delle popolazioni locali nel nord del Mali (gorane, peul, tuareg, tebu e così via), verso i quali il sud più ricco non ha mai avuto grande interesse. Così si spiega la facilità degli estremisti a infiltrare delle popolazioni che si sono sempre sentite abbandonate. Sono decenni che nella capitale Bamako la classe dirigente pensa che il nord sia solo una grana impossibile da sistemare. Inoltre va sempre considerata la sensibilità maliana sulla sovranità nazionale: quando i francesi hanno cercato di staccare i jihadisti dai separatisti tuareg, offrendo a questi ultimi un negoziato a parte (sfociato negli accordi di Algeri), Bamako si è ribellata. Oggi non c’è maliano del centro e del sud che non sia convinto che la Francia stesse sostenendo la secessione del nord. Per questo la partenza dei francesi è largamente approvata. Su tale decisione ha pesato anche il sentimento di essere trattati peggio di altri: in Ciad, dopo la morte improvvisa del presidente Deby, Parigi ha accettato un regime militare diretto dal figlio nel quadro di una transizione “dinastica” contraria alle disposizioni costituzionali. Nel caso del Mali invece la Francia condanna come «illegittimi» i nuovi dirigenti. Il paradosso è che Parigi ha sempre considerato la presenza in Africa come parte del suo statuto di potenza internazionale. Ora invece deve farsi invisibile per non urtare la sensibilità popolare.
Una guerra ambigua
Le ambiguità di questa guerra, che dura ormai dal dicembre del 2012, non si limitano a questo: c’è anche l’annosa faccenda dell’ipotetico dialogo con i jihadisti, almeno con lo Jnim (movimento per il sostegno dell’islam e dei musulmani) diretto dall’ex diplomatico maliano Iyad Ghali, un tuareg di stirpe nobile. L’altro raggruppamento, lo stato Islamico del grande Sahara (Eigs), viene considerato infrequentabile. Al tempo del presidente Ibk prima del golpe militare, vi erano nel governo due tendenze: quella favorevole al dialogo e quella contraria, sostenuta dalle forze francesi. Oggi i militari del putsch, Assimi Goita e gli altri colonnelli, sono anch’essi indecisi. A ottobre 2020 la liberazione di alcuni rapiti (tra cui padre Maccalli) aveva fatto credere che fosse possibile stabilire contatti negoziali che tuttavia non sono mai partiti. Mentre si polemizza tra Mali, Francia, europei e russi, il jihad prosegue la sua avanzata verso sud, in direzione dei paesi della costa più ricchi e connessi al commercio internazionale. Il Mali non è mai stato un paese dalle forti istituzioni ma era divenuto un esempio di democrazia in Africa dalla fine del lungo regime autoritario del presidente Moussa Traoré, rimasto in carica dal 1968 al 1991. Ciò che ha fatto precipitare il paese è stata la guerra di Libia del 2011, provocando un flusso di armi e combattenti verso sud. Era facile prevedere il caos per un paese dove lo stato non esercita le sue funzioni se non nelle città. Per le popolazioni transumanti del nord, i governi di Bamako erano una limitazione se non una minaccia. Il successo jihadista è derivato dall’aver saputo sfruttare i rancori e i conflitti sociali, etnici o clanici del nord. I militanti estremisti si sono inseriti in un vuoto, penetrando nell’economia informale della vasta area sahelo-sahariana: traffici di ogni tipo e contrabbando. Per spiegare la vicenda maliana va messa in conto anche la crescita dell’effervescenza religiosa in un paese al 99 per conto musulmano, dovuta ai predicatori arabi itineranti e alle televisioni satellitari. Il Mali stava mutando pelle e le stesse autorità stentavano ad accorgersene, continuando a governare come si era sempre fatto.
Il ruolo dell’Europa
Oggi si tratta di ricostruire una relazione tra europei e africani su basi del tutto nuove. È questo il disegno di Macron che deve ancora trovare il favore dei paesi europei potenzialmente interessati come l’Italia, la Germania e la Spagna. Andarsene del tutto dall’Africa occidentale non è un’opzione: il tema è come costruire quel partenariato di cui tanto si parla ma che ancora nessuno scorge. La pandemia poteva essere un’occasione ma, com’è noto, l’Europa non ha saputo essere generosa in vaccini. La lotta contro le conseguenze del Covid può diventare un’altra opportunità. In Africa la devastazione causata dal virus è soprattutto di natura sociale ed economica. Minori esportazioni di materie prime soprattutto agricole, meno lavoro, più diseguaglianze e maggiore povertà: questo è lo scenario di ciò che sta accadendo, soltanto un po’ mitigato dalle notizie riguardanti le infezioni che paiono essere più basse che a nord. Paesi ricchi e paesi poveri hanno vulnerabilità diverse. Durante la pandemia in Africa le persone hanno smesso di andare negli ambulatori mentre medici e infermieri hanno ridotto il loro lavoro. La chiusura dei mercati e la diminuzione dei commerci ha colpito il settore informale che rappresenta circa l’80 per cento dell’economia africana. In numerosi paesi i giovani hanno perso la scuola con il rischio di creare intere generazioni senza educazione. I danni a catena nei paesi a reddito medio-basso causati dalle conseguenze della pandemia, hanno diminuito il Pil in quasi tutti i paesi africani dopo anni di crescita stabile. In sintesi il Covid ha provocato una “pandemia ombra” nel mondo africano che andrebbe calcolata in vittime indirette e sul lungo periodo. Se l’Europa prende a cuore il sistema di base educativo e sanitario, forse non è troppo tardi per riallacciare una relazione positiva con l’Africa. Ma in questo caso la parola d’ordine deve essere la gratuità: è l’unico modo per far cadere qualunque sospetto di interesse sottobanco o di agenda nascosta.
(Mario Giro)
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