I leader delle comunità locali in Burkina Faso trattano con i jihadisti
Domani, 2 giugno 2022,
di Luca Attanasio
Afriche – La newsletter di Domani
La popolazione del Burkina Faso è stremata. Dal 2015 è vittima di una progressiva penetrazione di milizie jihadiste che hanno preso possesso di ampie aree e costretto 23 milioni di persone alla fuga, seminato terrore e portato il paese, così come tutta la fascia saheliana a ridosso, in piena emergenza umanitaria, con alcune aree in cui l’80 per cento della popolazione soffre la fame. Ma la situazione in cui versano milioni di burkinabé è anche il risultato dell’inefficienza dei governi succedutisi e dei supporti militari garantiti da Francia e truppe occidentali in operazioni quasi decennali che si sono rivelate un totale insuccesso a dispetto di un dispendio spaventoso di fondi.
Negli ultimi anni, la disperazione ha condotto comunità locali a pensare una propria strategia, slegata da quelle decise a Ouagadougou, nel tentativo di riportare le proprie zone se non la pace a una parvenza di normalità. I leader riconosciuti delle comunità di cittadine e villaggi in cui la presenza dei jihadisti è più radicata e massiccia, hanno deciso di intavolare un dialogo diretto con i capi delle milizie islamiche.
Primi tentativi di dialogo
Quando, a partire dal 2019, i primi tentativi cominciarono tra mille perplessità e ostacoli, a concretizzarsi, il governo centrale dell’epoca, sostenuto da tutti gli attori stranieri presenti sul territorio, fece di tutto per delegittimarli. La posizione ufficiale di Ouagadougou e di tutti i paesi occidentali presenti in Burkina Faso, è stata improntata per anni al confronto militare al grido di “nessun dialogo con i terroristi”. Ma da quando nel gennaio scorso, con l’appoggio esterno della Russia, il Movimento patriottico per la salvaguardia e la restaurazione ha ha deposto il presidente Kaboré e preso il potere designando il tenente colonnello Paul-Henri Damiba a capo della giunta golpista, la posizione del governo sul dialogo è cambiata. Damiba ha imposto da subito una nuova strategia che combini le operazioni militari con il negoziato e fatto capire che i tentativi delle comunità locali di dialogo con i jihadisti sono una possibile via da percorrere. “Il governo – ha dichiarato in una recente intervista a The New Humanitarian Yéro Boly, ministro della coesione sociale e della riconciliazione nazionale – si è reso conto che i gruppi armati volevano comunicare con i capi tradizionali, imam o rappresentanti di famiglie influenti. Abbiamo capito che la comunicazione avveniva tra loro al fine di portare la pace. Così abbiamo deciso di mettere in atto un coordinamento a livello del mio ministero”.
La strategia, tra passi indietro e recrudescenze, così come rifiuti radicali opposti in alcuni casi dai jihadisti alle richieste di aprire le scuole o di favorire il passaggio di aiuti umanitarie, sta avendo qualche risultato. In alcune zone, i terroristi hanno permesso ai nuclei familiari di far rientro nelle proprie case e riprendere a coltivare e allevare. In altri hanno acconsentito alla riapertura di scuole e attività sanitarie, in altre ancora hanno lasciato che le attività ripartissero imponendo però l’applicazione della sharia. Un aspetto cruciale è rappresentato dal tentativo di sdoganamento dei terroristi e la fuoriuscita dal bush che rappresenta per molti di loro uno stato mentale oltre che una condizione fisica.
Sdoganare i terroristi
Il recente incontro a Ouagadagou tra il leader della cittadina di Djibo e uno dei capi più influenti del jihad burkinabé, Jafar Dicko, fratello del fondatore della prima cellula del paese, apre minimi spiragli di luce nel buio oscurantista in cui è precipitato il Burkina Faso. La strategia fa leva anche sul sentimento patriottico e sul fatto che tra terroristi e comunità locali ci sono legami, in alcuni casi parente vere e proprie.
“Attualmente – ha dichiarato di recente a France 24 François Zoungrana, comandante dell’Unità di intervento speciale della gendarmeria nazionale – il nemico è composto essenzialmente da cittadini burkinabé e molto spesso è invisibile e confuso con la popolazione. Questo elemento ci costringe a ripensare il modo di condurre la guerra”.
La novità nella metodo, con l’irruzione sulla scena di leader delle comunità locali e l’apertura di canali di dialogo, sta avendo un effetto domino. Altri stati saheliani stanno pensando a percorsi simili. In Niger e in Mali sono stati avviati colloqui con i leader jihadisti e la Nigeria ha innescato processi di riabilitazione di terroristi di Boko Haram che mirano a farli uscire dalla clandestinità a intraprendere una nuova vita.
Al di là dei risultati a breve termine, resta la novità di un approccio a cui si stanno piegando sempre più governi trascinati dalle comunità locali, estenuate da anni di guerra atroce e da fallimenti clamorosi.
(Luca Attanasio)
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