Con l’addio della Francia, in Sahel si gioca la creazione di Eurafrica
Domani, 17 giugno 2021, di Mario Giro, politologo
Sulla politica africana della Francia si è scritto molto e discusso ancora di più. È una vicenda che risale dalla fine della colonizzazione, coinvolge il modello di relazione con le ex colonie scelto da Parigi e la funzione peculiare che tale quadrante franco-africano giocò durante la Guerra fredda. Non a caso due regimi afro-marxisti, come quelli del Benin di Matthieu Kérékou (famoso per il saluto a pugno chiuso accanto a Giovanni Paolo II) e del Congo Brazzaville del Partito congolese del lavoro, poterono esistere senza scombussolare lo schieramento geopolitico, grazie alla garanzia di Parigi.
Il tramonto con Mitterrand
Ora però tutto sta definitivamente cambiando. In realtà la Françafrique di cui si parla non esiste già da tempo. Tramontata definitivamente con la fine di François Mitterrand (e forse anche prima con il fallimento di quella politica africana), si era già trasformata in AfricaFrance. In altre parole erano i leader africani (al potere da innumerevoli anni) a dettare legge a Parigi e non il contrario. La Francia poté mantenere alcune delle sue prerogative soltanto grazie alla personale esperienza africana di Jacques Chirac, l’erede gollista della rete di relazioni precedenti. Se durante la Françafrique era Parigi a regnare, decidendo quale regime doveva sopravvivere e quale leader essere disarcionato, dalla metà degli anni Novanta in poi erano i capi africani a indicare la linea. Conoscevano (e in parte conoscono ancora) troppo bene lo scenario politico francese, i suoi equilibri e i suoi segreti, tanto da poterne condizionare alcuni passaggi. Numerosi episodi hanno fatto capire che per essere eletti in Francia occorreva in alcuni momenti avere il sostegno dei vecchi leoni d’Africa o almeno la loro neutralità (qualcuno vocifera anche i finanziamenti). Tale fase di AfricaFrance si sta spegnendo anch’essa a causa del passaggio generazionale. Fino a ora c’erano tra gli haut commis d’état francesi numerosi “africani”, cioè coloro che venivano dalla lunga tradizione dell’amministrazione francese legata al continente nero. Si trattava di diplomatici abituati a quel terreno, di militari che avevano servito nelle operazioni, di cooperanti dell’Agenzia francese di sviluppo (Afd) e prima ancora del ministero della Cooperazione, di esperti d’Africa e membri di qualche think tank, di alti funzionari prestati ai governi dell’Africa francofona e così via. Era un’intera generazione rinnovatasi per 40 anni e il cui momento più alto era la celebrazione dei vertici Francia-Africa. Progressivamente tuttavia tale corpo dello stato francese si è ridotto, indebolito e ha smesso di produrre vocazioni: il mondo stava cambiando e con esso gli interessi nazionali della Francia. Il primo a capirlo è stato certamente il settore privato, che dagli anni Novanta in poi ha smesso di sostenere automaticamente ogni iniziativa dell’amministrazione sul continente per volgersi in direzione di mercati più redditizi in Asia. Poi è cambiata la cooperazione. Infine la diplomazia. A un certo punto è divenuto difficile trovare vocazioni per le ambasciate in Africa, fino ad allora una specie di cursus honorum obbligatorio. Alla fine è mutata anche la politica. Già Sarkozy aveva cercato di liberarsi dei tanti legami franco-africani ma in quanto gollista non ha potuto portare a termine tale disegno, finendo per essere riacciuffato dai vecchi comportamenti. Anche François Hollande ha cercato di cambiare stile ma la guerra in Mali, da lui interpretata come lotta al terrorismo, è divenuta una trappola, finendo per rappresentare un ennesimo capitolo della Françafrique, con tutte le sue ambiguità.
La rottura di Macron
Emmanuel Macron invece si è presentato libero da condizionamenti africani (né gollisti, né socialisti) e ha potuto programmare come liberarsi dall’annosa tenaglia africana. Non si tratta di un compito facile, come la vicenda del Ciad dimostra. Anche Macron è dovuto volare in tutta fretta in una capitale africana per tessere le lodi di un alleato non propriamente democratico, al fine di benedire un auto-golpe in contrasto con la carta costituzionale e la pubblica opinione di quel paese. Ma la svolta del Mali con la fine delle operazioni di Barkhane nel Sahel, dimostrano che una svolta definitiva è possibile. La Francia ritira i suoi circa 5mila uomini, decisione presa contro il parere dei militari la cui influenza diminuisce sempre più. Si può dire che l’operazione aveva un’asse prettamente logistico e che le forze speciali (Takouba e Sabre) rimangono sul terreno per colpire i jihadisti. Nondimeno il messaggio è chiaro: la responsabilità della lotta anti-terroristica incombe ormai sui maliani e sugli altri stati che compongono il G5. In questo modo Macron mira a due obiettivi: responsabilizzare gli africani togliendogli l’alibi della presenza francese e europeizzare le operazioni più delicate in Africa, secondo il criterio dell’autonomia strategica. Sul primo punto occorre che gli africani si rendano conto che non c’è più nessuno a Parigi a perorare i loro interessi in nome dell’antica amicizia. I consiglieri del presidente sono tutti più giovani di lui e non hanno alle spalle legami franco-africani di nessun tipo. All’Eliseo, e in parte anche al Quai d’Orsay, si riflette oggi sul continente in maniera lucida e fredda, considerando anche la parte anglofona (forse la più interessante dal punto di vista commerciale) e dandosi obiettivi di lungo periodo. Per questo l’opportunità di sganciarsi dal Mali è stata colta al volo da Macron che già ci pensava da tempo, anche alla luce dei fallimenti diplomatici (i due golpe senza che nessuno se ne avveda) e militari. Questo non significa che la Francia si disimpegna del tutto: significa che lo fa in maniera diversa, senza sentirsi stretta da nessuna relazione particolare. Nei decenni precedenti la Francia si è auto-invitata in molte crisi africane: ora starà attenta ad attendere eventuali e convincenti inviti. In tale approccio di Macron c’è un po’ dell’atteggiamento di Barack Obama nei confronti delle operazioni americane in medioriente: se una strategia non ha successo, inutile incaponirsi nell’errore. Come gli americani lasciano l’Afghanistan, così la Francia lascia (almeno un po’) l’Africa occidentale. Questa è tra l’altro la ragione per cui Parigi non è preoccupata dell’arrivo di altri (russi, ecc.) a prendere il suo posto. Se ciò è avvenuto in Centrafrica – si ragiona a Parigi – non è detto che accada altrove. In Repubblica centrafricana si tratta di una piccola operazione con pochi militari russi e molti contractor della Wagner. In Mali una cosa simile non potrebbe riuscire, né tanto meno nell’Africa saheliana. Anche se ci fosse tale tentazione, all’Eliseo pensano che nessuna operazione simile a Barkhane può avere successo, forse peccando di superficialità perché l’esito positivo delle azioni militari dipende anche dal tipo di strategia utilizzata. Gli eserciti occidentali sono condizionati dalla propria opinione pubblica e non possono attuare tattiche da terra bruciata che non tengano conto delle perdite civili. Altri paesi hanno minori condizionamenti di questo tipo, come si è visto ad esempio in Siria. Infine la questione dell’autonomia strategica europea concerne principalmente l’Ue. L’idea di Macron è che ormai non ci sia più da far affidamento, almeno nel breve periodo, sull’ombrello protettivo americano. Il Pivot to Asia di Obama è stato accentuato da Trump e non sarà certo Biden a poterlo sovvertire, salvo forse nel caso della Russia. Lo si è visto anche al G7 di Cornovaglia: Germania e Stati Uniti non hanno la stessa idea su Cina e Russia. Tocca dunque a Francia e Italia decidere di volta in volta da che parte far pendere la bilancia. L’Europa si trova dunque sola davanti alle sue responsabilità e, secondo il leader francese, è necessario che si doti della cooperazione militare necessaria a reagire o contenere le sfide odierne e cioè: il jihadismo in Africa, il contenzioso con la Turchia nel Mediterraneo e la stabilizzazione democratica del medioriente e del Nord Africa (inclusa ovviamente la Libia). Sono compiti ardui che necessitano di una visione geopolitica a lungo termine. Più che di mezzi militari l’Europa manca tuttora di una strategia politica euroafricana: le nostre domande al governo italiano su tali scenari (incluso il Corno) riguardano tale futuro patto euroafricano e necessitano di risposte nuove, non soltanto del ribadire l’esercizio multilaterale e di cooperazione fin qui seguito. In questo anche la Francia deve fare uno sforzo: quello di condividere le sue strategie accettando di dialogare con approcci diversi.
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