Sono sempre i più deboli a pagare. La sconfitta africana nella guerra del grano
Città della Spezia, 12 giugno 2022
di Giorgio Pagano
Le conseguenze più drammatiche dell’invasione russa sono vissute dai cittadini ucraini, ma la guerra sta provocando conseguenze anche a distanza, facendo sentire i propri effetti soprattutto sui più poveri. Le sperimentiamo noi stessi, in particolare nel settore energetico e in quello alimentare. E i più poveri del mondo, i cittadini dei Paesi impoveriti, le subiscono ancora di più.
Oggi non scriverò del gas, ma del grano e del mais. L’85 per cento della produzione mondiale di grano viene da dieci Paesi, tra i quali Russia e Ucraina ai primi posti. I Paesi arabi, l’Europa ma anche l’Africa dipendono da questi produttori-esportatori. La guerra in corso tra due dei più grandi Paesi produttori/esportatori rende il mercato globale dei cereali imprevedibile e crea una forte pressione sui prezzi.
Guardiamo, per esempio, che cosa è successo nelle scorse settimane nel Burkina Faso, uno dei Paesi africani più impoveriti. Il sindacato dei fornai ha indetto una serrata di protesta contro il blocco imposto dal governo sugli aumenti del prezzo del pane. In Burkina Faso una baguette da 200 grammi costa 150 franchi Cfa (circa 0,23 euro), un prezzo calmierato e uguale per tutti gli esercenti. Con il recente aumento del costo del grano d’importazione i prezzi all’ingrosso sono lievitati e gli artigiani non riescono più a fare fronte ai costi. Il sindacato dei fornai aveva deciso unilateralmente di aumentare il prezzo del pane, da 150 a 200 franchi (circa 0,30 euro) per ogni baguette, facendo montare polemiche enormi. Il governo ha deciso di bloccare gli aumenti con un decreto legge: da qui la serrata dei fornai, costretti a riaprire le panetterie dalle forze dell’ordine. Una soluzione è davvero difficile da trovarsi. Il prezzo del grano per tonnellata è salito in meno di due mesi da 350.000 franchi Cfa (531 euro) a 505.000 franchi (760 euro).
Anche in Europa il grano è ai suoi massimi storici: 438 euro la tonnellata. Il doppio di un anno fa ma, comunque, parecchio inferiore rispetto ai Paesi impoveriti. Il rischio è che riprendano le “rivolte per il pane”, che l’Africa ha già conosciuto tante volte in passato. In Europa il cibo assorbe mediamente il 15% della spesa familiare, mentre nei Paesi a reddito medio-basso assorbe attorno al 50%. In Nigeria, per esempio, si attesta al 44%. Nel Sud del mondo, dunque, le famiglie sono molto sensibili alle variazioni dei prezzi alimentari, in particolare di prodotti di largo consumo come il pane. E le guerre più feroci, non dimentichiamolo, sono quelle per la fame.
Ma cosa c’è alla radice dell’aumento dei prezzi? “Possiamo dire che non si prospetta una carenza imminente quanto piuttosto forti speculazioni sui mercati dei futures che scommettono sull’aumento dei prezzi e sulle carestie future per ottimizzare i guadagni”, ha spiegato l’economista Frédéric Mousseau. I futures sul grano sono aumentati del 40% fra febbraio e marzo scorsi. Si tratta di contratti che fissano il prezzo per un acquisto futuro, e potevano essere usati nelle pratiche commerciali convenzionali per assicurarsi contro un rialzo imprevisto. Ma se vengono venduti prima che la stessa transazione si compia, la differenza fra il prezzo fissato e quello che si determina sulla merce reale porta a realizzare un profitto che prescinde dal bene reale. E quando gli acquirenti diventano molti, ciò incide sul prezzo di questo bene, il cui costo lievita (o scende) a prescindere dalla materia prima sottostante.
L’incertezza determinata dalla guerra è il terreno di coltura ideale per queste pratiche speculative, che hanno origine nel lobbismo capitalista che avrebbe dovuto essere regolato dopo il disastro della Grande crisi del 2007-2008. Ma le autorità statunitensi ed europee non hanno fatto nulla in materia, hanno subito le pressioni degli speculatori. Putin ha quindi grandi colpe, ma in questo caso ha avuto solo un ruolo di comparsa.
La batosta ha colpito in particolar modo l’Africa, il continente che deve importare dall’estero il 29% del proprio fabbisogno di cereali, con punte del 72% in Algeria, del 60% in Tunisia, del 42% in Egitto e addirittura dell’87% in Gabon.
“Una dipendenza estremamente pericolosa -ha spiegato l’economista Francesco Gesualdi- costruita nel tempo da quello che è sempre stato l’obiettivo prioritario di Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale: mettere l’Africa nella posizione di ripagare i propri debiti con l’estero”.
Leggiamo ancora Gesualdi:
“Ciò ha portato a privilegiare la produzione di caffè, cacao, olio di palma e altri prodotti per l’esportazione, piuttosto che la produzione di alimenti a uso interno. La tesi, formulata negli anni Ottanta del secolo scorso, era che il cibo importato sarebbe costato meno di quello prodotto internamente, per cui i governi dovevano smettere di investire in agricoltura e soprattutto di assistere i contadini. In quegli anni, in Africa gli investimenti pubblici agricoli erano paragonabili a quelli dell’America Latina, poi ci fu la divaricazione. Mentre in America Latina, fra il 1980 e il 2007, i fondi per l’agricoltura sono cresciuti due volte e mezzo, in Africa sono rimasti pressoché piatti. Quanto all’Asia sono stati da tre a otto volte più alti che in Africa. Il che ha reso l’agricoltura africana non solo più debole, ma anche più vulnerabile difronte alle sfide dei cambiamenti climatici che si fanno sempre più minacciosi”.
Ecco la tempesta perfetta che si è scatenata sulle teste dei Paesi impoveriti. Gli effetti del cambiamento climatico in termini di alluvioni, ondate di calore, siccità, sono drammatici. A Sao Tomé, il Paese dove opero con la Ong Alisei, gennaio è il mese del “gravanito”, un vento che interrompe la stagione delle piogge: quest’anno stato il mese di un’alluvione disastrosa. Ricordo un fine ottobre -in piena stagione delle piogge- con la terra arsa, spaccata dalla sofferenza per la mancanza d’acqua, e l’agricoltura devastata. Poi c’è stato il Covid-19, con i lutti, la crisi economica, i rialzi micidiali dei prezzi. Ora la guerra. E ci meravigliamo che i Paesi impoveriti votino contro le mozioni che condannano Mosca? Ma per loro l’unica cosa che conta è la fine del conflitto. Ora c’è l’aumento dei prezzi, ma quando le forniture di grano scarseggeranno che succederà? Tre miliardi di persone sono così povere che non avevano un’alimentazione sana già prima di questa crisi. Si calcola che il numero crescerà probabilmente di una cifra tra i 500 milioni e il miliardo.
Cosa si può fare? Molto spetta all’Africa. In Tunisia, per esempio, ci sono produttori e agricoltori che sono tornati a coltivare i grani locali in nome della sovranità alimentare. Lungo le strade dell’entroterra del Paese, racconta Layla Mastouri della cooperativa tutta femminile Lella Kmar, i rami di ulivi giallognoli si spezzano: “Ma il grano mahmoudi resiste. Quello ottenuto con i semi ibridi ha faticato persino a germogliare, questa varietà locale si adatta”. A Sao Tomé abbiamo costruito una fabbrica, in società con la Diocesi Vescovile, per produrre le farine locali dalla frutta pane, e stiamo formando i panettieri che gestiranno quattordici forni nelle comunità rurali. Filiere corte e locali, rispettose dell’ambiente e delle persone.
Questo è il futuro: perché non anche in Italia, nelle nostre tante terre abbandonate? Molto spetta anche a noi italiani ed europei. Anche noi abbiamo sbagliato la politica agroalimentare, smantellando intere produzioni cerealicole. Alla fine ce la caveremo pagando di più. Chi invece soffrirà più degli altri saranno gli africani. E I Paesi in guerra, in Africa e non solo. In questi casi l’emergenza grano potrebbe trasformarsi in catastrofe, come nello Yemen in guerra, dimenticato da tutti, che ha oltre diciassette milioni di persone che necessitano di assistenza alimentare e una quota crescente della popolazione a livelli di vera inedia, tra cui oltre 2 milioni di bambini gravemente malnutriti.
Il nostro dovere di italiani ed europei è riscoprire gli uomini e le donne più poveri del mondo, per costruire la pace. E per agire non solo con la solidarietà, ma anche e soprattutto con il partenariato e la cooperazione internazionale. Quante cose potremmo realizzare insieme! Molto probabilmente, come al solito, ci accorgeremo del disastro solo quando la sua conseguenza più piccola la vedremo sotto casa sotto forma di immigrazione. Ma non dobbiamo rinunciare a sperare, e a fare.
Post scriptum
Discuteremo di questi temi martedì 14 giugno alle ore 18 in piazza Mentana, luogo settimanale di “Assemblea aperta e confronto pubblico” per la pace (ogni lunedì, questa volta eccezionalmente il martedì per la concomitanza con la scadenza elettorale).
Le foto di questa settimana sono state scattate a Morro Peixe, località di Sao Tomè.
lucidellacitta2011@gmail.com
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