L’Africa si salva da sè
Città della Spezia, Rubrica “Diario do centro do mundo”, 13 Aprile 2016 – Domenica scorsa sono tornato nella magnifica foresta primaria del Parque Nacional d’Obò. La prima volta ero salito da Ponta Figo, nel Distretto dove opero, quello di Lembà (si veda, in questa rubrica, “La foresta tropicale, regno della biodiversità”, 12 luglio 2015). Questa volta sono salito dalla parte opposta dell’isola, dove c’è l’altra porta del Parque -il Giardino Botanico di Bom Sucesso- perché è la più vicina alla meta che volevo raggiungere, la Lagoa Amelia. Si tratta di un antico cratere vulcanico, a 1.483 metri di altezza, riempito dall’acqua piovana e ricoperto da un “tappeto” di vegetazione verdissima. E’ il “centro del centro del mondo”, perché lì sotto nascono tutti i fiumi di cui è ricca l’isola. Ai lati della Lagoa crescono bellissime begonie bianche, come quelle della foto in alto. In questa stagione, quella delle piogge, bisogna stare attenti a non sprofondare, come capitò alla colona portoghese Amelia, che sparì con il suo cavallo e diede così il nome a questo luogo straordinario. Per fortuna avevo come guida il mio giovane amico Nito, che mi sollevava dal fango mentre cercavo di scattare foto! Il sentiero che sale alla Lagoa è immerso nella foresta: è uno spettacolo di alberi, piante, fiori, frutta, uccelli di tantissime specie… Non abbiamo visto solamente il macaco, perché fugge non appena si accorge della presenza umana. Nel tratto iniziale ho mangiato la banana e l’avocado, e un frutto selvatico che Nito chiama morango, cioè fragola, ma che è in realtà il corbezzolo, identico al nostro alla vista e al gusto: non l’avrei mai detto! Gli alberi sono imponenti, molti sono segnati come alberi medicinali: nella foto in basso vedete il cubango, usato per curare le malattie degli occhi. Altri servono per la prostata o per i dolori di pancia… e naturalmente molti sono “stimolanti” e afrodisiaci. Impressionante è il figo estrangulador, un albero sottile che avvolge e stritola, fino a ucciderli, i giganteschi fusti di madeira.
La magnificenza della biodiversità di Sao Tomè emoziona e fa riflettere. Non riprendo qui considerazioni che ho fatto nell’articolo citato e in altri del Diario, se non per ribadire due punti d fondo. Il primo è che bisogna salvare la biodiversità: ma in un Paese poverissimo, in cui l’uomo aggredisce la biodiversità per sopravvivere, lo si può fare soprattutto con la partecipazione e la condivisione, non solo con il controllo e la repressione. Salendo alla Lagoa Amelia ho visto tantissime piante di bambù: il che mi ha rafforzato nella convinzione di sperimentare la coltivazione e l’utilizzo controllato del bambù come materiale costruttivo, in particolare di abitazioni e mobili, sostitutivo della madeira tagliata illegalmente. Ma questa proposta ha un senso solo se inserita in un Piano partecipato di gestione comunitaria della foresta. Il secondo punto è quello dell’ecoturismo o turismo rurale come vocazione fondamentale del Paese. Arrivando a Bom Sucesso ho visto quattro pullmini di turisti, poi ho pranzato a Saudade, in un ottimo ristorante di specialità locali, e anche lì ho trovato turisti. Sono tutti segnali che Sao Tomè ha ormai conquistato un “posizionamento” nel mercato turistico mondiale, che va portato avanti senza incertezze: è questo, insieme a un’agricoltura e a una pesca rinnovate, il motore per fare uscire le isole al centro del mondo dalla povertà. “O futuro nao è o petroleo, mas a natureza”, ho detto a Nito salendo, e lui ha annuito. Pensavo ai vecchi disegni, mai realizzati, di estrarre petrolio nei mari di Sao Tomè, ma anche al referendum contro le trivellazioni in Adriatico che si terrà il 17 aprile…
Ma la considerazione più importante è quella di carattere generale: l’Africa, anche la più povera, ha davvero un futuro. Qualche anno fa l’afroamericano Uzodinma Iweala, su “Repubblica”, implorò l’Occidente di smettere di pretendere di “salvare l’Africa”. L’articolo conteneva un’analisi disincantata della carità pelosa di molte campagne occidentali a favore dell’Africa: “Per quanto ben intenzionate, le campagne di questo genere promuovono lo stereotipo dell’Africa come una sorta di buco nero di malattia e di morte. Le notizie di stampa si concentrano invariabilmente sui leader corrotti del continente, sui signori della guerra, sui conflitti ‘tribali’, sul lavoro minorile e sulle donne sfigurate da abusi e mutilazioni genitali… Queste descrizioni, oltre a passare sotto silenzio il ruolo preminente del mondo occidentale in molte delle situazioni più disastrose del continente, ignorano il lavoro incredibile che gli africani hanno compiuto e continuano a compiere per risolvere i loro problemi”. L’analisi è giusta: non è vero che l’Africa è incapace di prendere la parola, di trovare la strada della propria salvezza. L’Africa si salva da sé. E’ così anche a Sao Tomè. Se pensiamo alla foresta e alla biodiversità a rischio, o all’ecoturismo da sviluppare, capiamo che, certo, i Paesi “donatori” possono dare un contributo, come fa l’Unione europea finanziando, tramite l’ong Alisei vincitrice di un bando, il nostro Piano. Ma capiamo anche che il Piano vive solo se è costruito con le popolazioni locali, sulla base di un “sentimento” condiviso. Il Piano, se funzionerà, lo farà perché ha accompagnato, stimolato, sostenuto la nascita di esperienze grazie alle quali i saotomensi si salvano da sé. Mi riferisco, in questo caso, alla “Plataforma do turismo sostentavel e responsavel”, un eccellente esempio di iniziativa di autogoverno e di gestione comunitaria del Parque per la sua valorizzazione turistica, senza il quale l’aiuto dei “donatori” servirebbe a ben poco (si veda, in questa rubrica, “Le meraviglie di Principe e la strada del cacao a Lembà”, 18 ottobre 2015).
Emergono due questioni di fondo. La prima è che serve dar voce alla società civile africana, a quella che c’è e a quella che occorre contribuire a far nascere. La seconda è che la formazione e il radicamento di forme di aggregazione civile e sociale hanno bisogno che vada avanti il processo di decentramento amministrativo, di spostamento verso il basso di poteri e di funzioni, di rafforzamento dell’autonomia istituzionale e impositiva. Sono due questioni centrali anche a Sao Tomè, che abbiamo messo al centro del nostro Piano. Di questa impostazione sono debitore nei confronti di alcuni amici, con i quali condivido da anni -prima come responsabile della cooperazione decentrata in Anci, poi come presidente di Funzionari senza Frontiere- l’impegno per il rafforzamento della società civile e per il decentramento politico e amministrativo in Africa: Enrico Cecchetti, amministratore toscano e presidente di EUAP (Euro African Partnership), Fabrizio Pizzanelli, che di Funzionari senza Frontiere è direttore, Massimo Toschi, prima assessore e poi consigliere del Presidente della Regione Toscana, Stefano Fusi, già sindaco di Tavarnelle Val di Pesa, impegnato in un’intensa esperienza di cooperazione con la provincia di Doba, nel Ciad. Sono stati loro -e gli amministratori locali africani che mi hanno fatto incontrare- a insegnarmi che il decentramento favorisce la formazione e il consolidamento delle organizzazioni della società civile, le quali possono trarre nuova forza proprio dall’interlocuzione con le istituzioni locali, molto più vicine dei governi centrali. Proprio per questo il decentramento può contribuire ad affermare processi di sviluppo locali nuovi, basati sulla massima valorizzazione delle risorse e delle competenze presenti nei territori locali. Utilizzo la parola “sviluppo” ricordando che l’intellettuale e uomo politico africano Joseph Ki-Zerbo ci ha spiegato che questa parola non esiste nelle lingue africane con il significato che ha da noi. Il concetto significa un’altra cosa: “valori morali e sociali e il senso della comunità, del crescere assieme”. E’ il concetto alla base della “Plataforma do turismo sostentavel e responsavel”, non certo delle “cattedrali nel deserto” e delle mastodontiche opere pubbliche.
Se questa analisi ha un fondamento è evidente che ciò che accade in Africa ci riguarda anche molto direttamente, nell’interesse “loro” e “nostro”. La cooperazione che funziona è infatti quella che non si limita al progetto, ma va oltre, verso la costruzione di partenariati tra territori, “da comunità a comunità”. E che può molto proficuamente incontrarsi con un’internazionalizzazione delle nostre imprese ispirata a criteri di sostenibilità e responsabilità. Non a caso il progetto a Sao Tomè è stato accompagnato da un protocollo di intesa tra il Distretto di Lembà, sostenuto dal Governo, con le reti ci cooperazione toscana e ligure, quest’ultima sorta in questi anni grazie all’impegno di Januaforum, associazione che ho fondato insieme a tanti amici, tra cui l’attuale presidente, Sergio Schintu. Nella pesca, nell’agricoltura, nel turismo, nella cultura, dunque, c’è un grande ruolo da giocare a Sao Tomè per le associazioni e per le imprese italiane, toscane e liguri in particolare.
Nel 2008 l’allora commissario Ue per lo sviluppo Luis Michel, in una lettera inviata a tutti i sindaci dei 27 Paesi dell’Ue, scrisse: “Un certo numero di Enti locali si è già impegnato in progetti di sviluppo a livello omologo nei Paesi del Sud del mondo. I risultati di queste esperienze sono straordinari e hanno mobilitato ogni volta energie e dinamiche fondate su scambi umani che costituiscono una fonte di reciproco arricchimento. Con mezzi di bilancio ridotti si realizzano progetti utili, generosi, efficaci. Serve però un numero molto maggiore di iniziative del genere. Se infatti ciascun Ente locale, con propri mezzi anche limitati, decidesse di impegnarsi nel gemellaggio con una città, un comune, un distretto, una provincia, una regione del Sud, il mondo ne risulterebbe trasformato e la povertà retrocederebbe rapidamente”. Serve che i nostri amministratori parlino e collaborino con quelli del Sud del mondo; e serve che i nostri funzionari lavorino e scambino esperienze con i loro colleghi africani. Nella mia città, Spezia, un ciclo politico è al tramonto. Quello che si aprirà dovrà riprendere e rinnovare le importanti esperienze del passato, purtroppo abbandonate: il gemellaggio con il Comune palestinese di Jenin e il patto di amicizia con i Comuni nigerini di Illela, Badaguichiri, Taje e Bagaroua. La “Grande crisi” ha spinto Spezia a chiudersi in sé stessa. Ma in realtà la crisi si sconfigge solo aprendosi al mondo.
Post scriptum: sul decentramento amministrativo in Africa e sulla cooperazione “da comunità a comunità” in questi anni ho scritto molto su quotidiani nazionali e locali e su riviste; gli articoli sono tutti leggibili su www.associazioneculturalemediterraneo.com
Giorgio Pagano
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