L’Africa non deve copiare l’Occidente
Città della Spezia, Rubrica “Diario do centro do mundo”, 27 marzo 2016 – Ho conosciuto Pino Lena tardi, quando, da Sindaco, stipulai il gemellaggio tra La Spezia, la città di Jenin (Palestina) e la città di Haifa (Israele), e lavorai al progetto di cooperazione per la realizzazione, a Jenin, del centro giovanile Sharek, concepito per dare risposte ai gravissimi problemi della disoccupazione giovanile e della difesa del patrimonio culturale, quale “memoria” vivente di un popolo. Da allora si è instaurato un rapporto di amicizia, che ci ha visti assieme, come volontari, in tante avventure sociali e culturali: la prosecuzione dell’impegno a Jenin, l’Associazione Culturale Mediterraneo, il coordinamento antirazzista Io non respingo, le associazioni di cooperanti Funzionari senza Frontiere e Januaforum… Pino mi ha insegnato molto sull’Africa. Lui arrivò nel “continente nero” nel 1998, dopo 25 anni di attività di dirigente della sanità spezzina, anche come reazione all’affievolirsi della spinta verso il cambiamento in campo sanitario. In Africa Pino ha fatto, per parecchi anni, il “socio-economista di strada”, cioè il cooperante a sostegno delle micro aziende artigianali attive nei grandi mercati urbani della Repubblica Centro Africana, del Marocco, della Repubblica Democratica del Congo, del Camerun. Nelle discussioni tra noi mi ha sempre parlato degli stereotipi dell’incontro tra il cooperante bianco e la persona africana nella sua terra: “Da parte africana l’uomo bianco, il cooperante è sempre considerato ricco, pieno di disponibilità, qualche volta da guardare con gli occhi con i quali il cacciatore guarda la lepre -una possibile preda-, da ‘usare’ per un proprio beneficio personale… da parte nostra pensiamo di trovarci davanti a persone che ‘non sanno’, alle quali bisogna insegnare quello che noi sappiamo, facendo il possibile per far prevalere il nostro punto di vista… certamente, man mano che il rapporto si approfondisce, la relazione diventa più equilibrata; le distorsioni nella reciproca percezione si possono affievolire fino a sparire: così crescono le basi per una collaborazione non diffidente e in qualche caso è nata una bella, duratura amicizia”. Le parole di Pino mi hanno molto aiutato a Sao Tomè e Principe, dove sto lavorando all’elaborazione partecipata del Piano Integrato di Sviluppo Sostenibile e Inclusivo del Distretto di Lembà: innanzitutto a costruire relazioni basate sul rispetto dell’altro e sulla reciprocità. E a pormi sempre questa domanda, quella formulata dal grande cooperante Bernard J. Lecomte: “Ma loro, queste persone, chi sono? Solo degli esecutori di un progetto pensato e organizzato dall’aiuto straniero? O invece un gruppo che già agisce, si organizza, che possiede una propria cultura e un proprio sistema decisionale?”. Anche per questo il Piano, ormai definito, è davvero una “costruzione sociale”, elaborato con il contributo decisivo della partecipazione popolare. Non è il progetto “per” Lembà, ma il progetto “di” Lembà. Certo, ci sono le idee mie e di chi ha collaborato con me. Ma queste idee sono soprattutto il frutto di incontri con i saotomensi, che hanno digerito, accettato, modificato, rifiutato le nostre idee originarie. Come dice Pino: “Il progetto passerà, il cooperante partirà, la storia di quella popolazione continuerà”. Il prendere coscienza che si partecipa temporaneamente all’avventura umana di un gruppo autonomo è il primo passo del rispetto per l’altro che un cooperante deve compiere se vuole individuare il significato reale della cooperazione. Il rispetto per l’altro comincia nel momento in cui ci riconosce come eventi passeggeri, che devono il proprio potere solo al denaro portato dall’estero.
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Ho già scritto nella mia rubrica “Luci della città” (”Il demone dello sviluppo e il demone del potere”, “Città della Spezia”, 3 gennaio 2016) dell’importanza che per me hanno avuto alcune letture del mio primo periodo africano: quella dell’enciclica “Laudato sì” di Papa Francesco, e la rilettura degli scritti di Pier Paolo Pasolini e di Alex Langer. Sono letture che hanno influenzato la maturazione della mia critica a questo sviluppo e a questo potere. Oggi scriverò dell’influenza che hanno avuto nella maturazione del mio approccio all’Africa, basato, come dice Pino Lena, sul rispetto dell’altro e sulla reciprocità.
Un testo di Langer dell’ottobre 1989 è veramente anticipatore:
“Per una lunga fase del recente passato l’obbiettivo di contribuire a trasformare i (Paesi, economie, popoli) ‘sottosviluppati’ in ‘sviluppati’ sembrava la quintessenza di un impegno internazionalista di giustizia e di pace. Il divario tra ricchi e poveri veniva letto come divario tra sviluppo e sottosviluppo, da colmare attraverso la più equa distribuzione dei benefici dello sviluppo… I benefici sono assai unilateralmente finiti nelle mani dei Paesi che hanno retto il timone dello ‘sviluppo’ e nelle mani di ristretti gruppi sociali che se ne sono fatti agenti locali. Non è un caso, quindi, che nei Paesi del Sud del mondo da qualche tempo cominci a emergere con sempre maggior chiarezza una critica all’illusione ‘sviluppista’”. Langer propone, in alternativa, di “limitare i danni dell’impatto della nostra civiltà e dei nostri mercati verso i Paesi impoveriti”, di “esigere una accurata valutazione dell’impatto ambientale, sociale, culturale e generazionale di tutti gli interventi di ‘sviluppo’” e di puntare alla “valorizzazione del patrimonio naturale e culturale” locale.
Simile è la riflessione, 26 anni dopo, del Papa:
“E’ necessario assumere la prospettiva dei diritti dei popoli e delle culture, e in tal modo comprendere che lo sviluppo di un gruppo sociale suppone un processo storico all’interno di un contesto culturale e richiede il costante protagonismo degli attori sociali locali a partire dalla loro propria cultura. Neppure la nozione di qualità della vita si può imporre, ma dev’essere compresa all’interno del mondo di simboli e consuetudini propri di ciascun gruppo umano”. Aggiunge Bergoglio: “L’istanza locale può fare la differenza. E’ lì infatti che possono nascere una maggiore responsabilità, un forte senso comunitario, una speciale capacità di cura e una creatività più generosa, un profondo amore per la propria terra, come pure il pensare a quello che si lascia ai figli e ai nipoti”.
Ma simile è anche il pensiero di Serge Latouche: “Non appena l’Occidente ha posto il Progresso come pietra angolare della modernità, tutti i Paesi vittime della sua presenza e per cominciare quelli nella sua prossima vicinanza si sono ritrovati colpiti dal male incurabile del ritardo”.
E’ con queste basi culturali in testa che abbiamo pensato al turismo sostenibile, all’agricoltura di qualità e alla pesca come alle vocazioni chiave del Distretto di Lembà, in alternativa all’ipotesi di dar vita a una “Dubai dell’Atlantico”, con un turismo impattante, magari combinato all’industria pesante. La forza della nostra proposta sta nel consenso e nel protagonismo di una società locale che vuole lottare contro la povertà, ma al contempo non intende rinunciare alla propria identità e alla propria cultura e limitarsi a “copiare” l’Occidente. Non so se ce la faremo, perché l’ordine mondiale va in direzione opposta. Il motore impazzito che muove il mondo, per dirla con Latouche, è la rincorsa ossessiva a recuperare il “ritardo”.
Pier Paolo Pasolini, frequentando sempre più spesso l’Africa, venne in contatto con un mondo contadino che conservava una sua vitalità, ma oggi userebbe le espressioni di Latouche, di Langer o di Bergoglio. Riflettendo nel 1965 sul Marocco lo scrittore friulano già si domandava: “Qual è la speranza dei marocchini? Si direbbe che altra immediata speranza non alberghi in quei cuori semplici che un ideale piccolo borghese accomunato possibilmente con la vecchia fedeltà al Corano. Rispetto alla Francia o in genere all’Europa, essi sono un po’ come un lucano rispetto a Milano: non criticano, non giudicano; vorrebbero semplicemente trasferirvisi, come in luoghi che garantiscono aprioristicamente un tipo di vita borghesemente superiore”. Il grande obbiettivo, “in direzione ostinata e contraria”, è quello di un’Africa che vinca la povertà senza subire le ferite irreversibili dell’invasione ‘sviluppista’. L’idea di “una cooperazione per domare il demone dello sviluppo”, che unisca i popoli del Sud e del Nord del mondo, comincia lentamente a farsi strada. Sembra un appello a fare cose impossibili. Eppure se il futuro ci riserva qualcosa di diverso dalla infinita ripetizione dello sviluppo e dei suoi miti qualcosa di questo impossibile non è destinato a rimanere per sempre tale.
Giorgio Pagano
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