Fruta pao e pesce sono risorse, l’olio di palma è un problema
Città della Spezia, Rubrica “Diario do centro do mundo”, 1° novembre 2015
SLOW FOOD A SAO TOME’ E PRINCIPE
Ho gustato per la prima volta i prodotti di Sao Tomè e Principe a Torino, all’edizione 2010 di Terra Madre, la grande manifestazione, organizzata da Slow Food, della rete delle comunità di agricoltori, cuochi, pescatori, pastori di tutto il mondo che vogliono difendere l’agricoltura, la pesca e l’allevamento sostenibili per preservare il gusto e la biodiversità del cibo. Me l’ero dimenticato, ma mi è venuto in mente quando, questa estate, abbiamo festeggiato il compleanno di Gildo, l’ex professore che dà una mano come autista alla ong Alisei. C’erano anche uomini e donne di altre ong che operano a STP, tra cui Qua Tela, una ong saotomense (il nome significa “Cose della Terra”) impegnata principalmente nell’assistenza agli agricoltori per la trasformazione dei loro prodotti. Le cuoche di Qua Tela hanno preparato le squisitezze della festa, ed è lì, mentre cantavamo “Tanti auguri a te” a Gildo (è la canzone che si canta in tutto l’Occidente, portata qui dai coloni portoghesi: ma a STP la si canta tutta intera, non il solo ritornello), che mi è tornato alla memoria dove avevo già assaggiato i piatti tipici saotomensi, il molho (salsa) di pesce salato e affumicato, i pasteis di fruta-pao e di matabala, il dolce di buccia di banana. Qua Tela, infatti, ha organizzato due volte la presenza delle comunità del cibo di STP a Terra Madre, e cura il presidio di Slow Food a STP: l’izaquente, il frutto di un albero robusto che cresce in modo spontaneo in tutto l’arcipelago. E’ tondo, verde e molto grande, assomiglia alla fruta-pao ma ha una superficie più liscia. Non si sbuccia e non si cuoce come la fruta-pao, ma si lascia maturare per estrarre meglio i semi, che si mangiano una volta lavati oppure essiccati, e hanno grandi proprietà nutritive. Qua Tela, inoltre, partecipa anche all’impegno di Slow Food per creare orti scolastici, comunitari e familiari nei Paesi africani. E’ stato raggiunto l’obbiettivo lanciato nel 2010 a Terra Madre, quello di realizzare mille orti. Ora l’obbiettivo è stato rilanciato, e moltiplicato per dieci volte: realizzare 10.000 orti, secondo i principi dell’agroecologia che, rispetto all’approccio tradizionale, punta sulla biodiversità e su una giusta gestione del suolo e dell’acqua. Qua Tela ha realizzato un orto nella scuola elementare di Neves, ricco di tutti i prodotti: l’ho visitato, era un po’ in sofferenza per il ritardo della stagione delle piogge. Ma ora è finalmente arrivata, e Qua Tela è pronta per creare altri 20 orti in tutta STP. A oggi, gli orti nel Paese sono già 22. Far nascere un orto, mi spiega il presidente della ong Valdmir de Almeida, significa non solo la realizzazione materiale di un campo coltivato, che può sfamare in modo sano e giusto una comunità, ma anche la possibilità di formare giovani che possano prendere in mano il loro destino e il futuro della politica agricola a STP.
MA COM’E’ BUONA LA FRUTA-PAO!
Qua Tela ha un rapporto diretto con gli agricoltori, soprattutto con coloro che non hanno avuto in concessione la terra con la riforma agricola del ’92: i bambini di allora, che oggi sono i giovani figli dei concessionari. Per migliorare il reddito della famiglia non resta loro che trasformare i prodotti. La ong ha ottenuto buoni risultati con la composta di zucca. L’impegno non è facile: da un lato c’è una difficoltà ad associare i contadini in microimprese e cooperative, perché la mentalità individualistica è dura a morire; dall’altro lato, anche quando ci si riesce, spesso il mercato interno non risponde, nel senso che è più interessato ai prodotti di importazione che a quelli tipici, come le farine di fruta-pao, di banana e di matabala, che pure sono ottime e hanno grandi proprietà nutritive. “Il problema è culturale -mi spiega Valdmir- e riguarda innanzitutto “la capacità di collaborare tra le persone”. Le cooperative funzionano soprattutto nei settori più strutturati, come il cacao, il caffè e il pepe, “ma in altri settori è difficile realizzarle, perché i benefici, i guadagni, arrivano troppo in là negli anni, e allora i contadini si accontentano dell’agricoltura di autosostentamento”. Il problema dell’agricoltura vista come attività non economica ma per la sola sussistenza è generale, riguarda anche il cacao, nonostante i progressi di cui parla Valdmir e di cui ho scritto domenica scorsa: si pensi al fatto che teoricamente un ettaro di terra dovrebbe ospitare 1100 piante di cacao, e che invece in molti casi ne ospita 800, 500, 300… Il problema sta, appunto, nella “mentalità individualistica” e nella scarsa attitudine a lavorare assieme agli altri.
“Il problema è culturale”, prosegue Valdmir, anche riguardo al consumo di prodotti importati: “serve un’opera di sensibilizzazione che spinga al consumo dei prodotti locali”. Su questo sta lavorando la ong Alisei, con un progetto finalizzato allo sviluppo produttivo della terra per le mense scolastiche (essenzialmente la fruta-pao), finanziato dalla Cei (Conferenza episcopale italiana). Catarina Fernandes, cooperante portoghese impegnata nel progetto, mi spiega che il costo di produzione della farina di fruta-pao (che è priva di glutine) è abbastanza alto: è stato fatto uno studio per le mense scolastiche del Distretto di Lembà, ma gli alunni sono troppo pochi, occorrerebbe un mercato nazionale. Ellen Carvalho, delegata distrettuale per l’agricoltura, mi dice che il prodotto importato si usa perché a volte, come nel caso del riso, costa meno del prodotto interno lavorato. Quindi al problema culturale si unisce il problema economico. Il punto delle potenzialità della fruta-pao va approfondito: si produce tutto l’anno, non ha bisogno di alcun trattamento, è buona sia fresca sia trasformata in farina. Le potenzialità stanno sia nel mercato interno -basterebbe raggiungere una fetta consistente di consumatori- sia in quello estero: si pensi a coloro che in occidente sono affetti da celiachia, e chiedono prodotti senza glutine. Ma non è semplice esportare la fruta-pao fresca, che si deteriora nel giro di pochi giorni: il problema va studiato. Così come va studiato il possibile utilizzo della farina: va bene per fare le pappe per i bebè, ma da sola non basta per fare pane e pasta, e allora va verificato come utilizzarla mescolandola ad altri prodotti senza glutine. E’ un punto che abbiamo posto come obbiettivo prioritario del Piano di sviluppo di Lembà. E che vorremmo sottoporre alla riflessione di imprese italiane del settore alimentare. I problemi da risolvere sono anche altri: mancano non solo gli aerei con cui esportare i prodotti (ne ho scritto domenica scorsa), ma anche i laboratori di analisi. “Ci sono imprese che vorrebbero esportare, ma lo Stato non è organizzato -mi spiega Maria Josè Ria Afonso, dirigente del Ministero dell’Industria- servono strumenti legislativi, organizzativi e tecnici per fare i laboratori di analisi… quello del cacao funziona bene, bisogna migliorarne le competenze”. L’unica vera fabbrica di STP è a Neves, è la Rosema, che produce una birra di ottima qualità: ma non si può esportare, perché non c’è un laboratorio di analisi che consenta al prodotto di avere l’etichetta.
L’OLIO DI PALMA? MEGLIO A PICCOLE DOSI
Affronto con Valdmir, infine, un punto che interessa molto anche il lettore italiano: la produzione di olio di palma. “L’olio di palma artigianale è molto migliore di quello industriale, è ricco di vitamine A e C, e fa molto bene”, sostiene Valdmir, che così continua: “l’olio di palma qui c’è sempre stato, ben prima dell’industria, è presente in tutte le antiche ricette locali, ed è molto diverso da quello industriale, ha anche un odore differente, perché è ricavato solo spremendo le sementi e non tutto il frutto, come fa l’industria”.
Non c’è dubbio che a STP l’olio di palma artigianale sia un prodotto della tradizione. Ho visto che nelle vecchie roças coloniali c’era spesso, e c’è ancora, il capannone per produrre olio di palma. E ho mangiato il piatto tipico di STP, il calulu di pesce o di carne (stufato piccante con verdure), che si cucina con l’olio di palma. La fruta-pao e la banana si friggono con l’olio di palma: i prodotti hanno una consistenza soffice, e non sono untuosi al tatto. Sono un profano sul punto degli effetti dell’olio di palma, artigianale o industriale, sulla salute, ma è certo che l’olio industriale è altra cosa da quello artigianale soprattutto per l’effetto che ha sulla deforestazione. Quando sono andato nel sud di Sao Tomè, verso l’Ilheu das Rolas, ho visto che cosa ha realizzato, d’intesa con il Governo di allora, l’impresa belga-francese Agripalma dal 2009: la trasformazione di 1900 ettari di foresta, destinati a crescere ancora, in piantagione di palma da olio per produrre olio da cucina. Ciò che è avvenuto a Sao Tomè è solo il piccolo esempio di un processo mondiale teso a produrre olio di palma non solo per l’industria alimentare ma anche per quella cosmetica e per gli agrocombustibili. La mobilitazione popolare in difesa della foresta e delle coltivazioni tradizionali, come la palma da cocco, ha raggiunto qualche risultato: a Principe il progetto di Agripalma, che prevedeva la distruzione di 1000 ettari di foresta, è stato bloccato, mentre a Sao Tomè la magistratura ha imposto limiti per tutelare il Parque Nacional, i fiumi, i torrenti e le lagune. Non so se avesse ragione il Ministro dell’Ambiente francese Segolene Royal qualche settimana fa, quando ha affermato in una trasmissione tv: “Non comprate più la Nutella, distribuisce a distruggere il Pianeta”. Ho letto che la Ferrero si è difesa, e che anche gli ambientalisti l’hanno appoggiata. Dal 2004 esiste la Round Table on Sustenaible Palm Oil (Rspo), la tavola rotonda per l’olio di palma sostenibile, che riunisce produttori, acquirenti e ambientalisti, tra i quali il Wwf. La Rspo certifica l’olio non proveniente da deforestazione, ma esistono dubbi sulla sua effettiva efficacia. Certo è che si dovrà separare questa coltivazione dalla deforestazione, se si vorrà evitare una catastrofe ecologica: la Fao afferma che nel 2020 il consumo di olio di palma raddoppierà. Nel frattempo, dice il Wwf, il boicottaggio “a-la-Royal” sarebbe controproducente, perché finirebbe per colpire anche chi produce quest’olio in modo sostenibile. Senza contare che usare altri oli per sostituirlo richiederebbe ancora più terreno. Ma c’è, come ho ricordato, una seconda ragione dell’ostilità nei confronti dell’olio di palma: il pericolo che rappresenta per la salute. Contiene, infatti, acidi grassi saturi, che aumentano il colesterolo e promuovono la formazione di placche nelle nostre arterie. Gli studi ci dicono, sintetizzando, che, circa il rischio cardiovascolare, l’olio di palma sembra essere meglio delle margarine, e intermedio tra gli oli di oliva e girasole e il burro. Ma i dubbi restano. Nell’incertezza che fare? Gianluca Picariello, chimico dell’Istituto di scienze alimentari del Cnr, ha dato un consiglio di buon senso: “Limitare il consumo di grassi in genere, e in particolare di quelli raffinati a largo uso industriale”. Quindi, per quel che mi riguarda, basta dolci e biscotti con l’olio di palma industriale, sì -ogni tanto- al calulu e alla fruta-pao fritta e alla banana fritta di Sao Tomè!
CREARE IL DISTRETTO DELLA PESCA
Un’altra ong saotomense che svolge un ruolo molto importante è Marapa (Mar Ambiente e Pesca Artesanal), la cui missione è chiara fin dal nome. Il presidente Gilberto Ceita do Rosario mi racconta le battaglie per l’ambiente: innanzitutto la difesa delle tartarughe marine dai pescatori illegali e la difesa delle spiagge dall’estrazione degli inerti. “Abbiamo ottenuto due leggi di tutela ma non bastano -mi spiega- c’è bisogno di attuarle, servono risorse e personale, serve un’opera di sensibilizzazione culturale”. Sulla pesca Marapa si batte per molti obbiettivi, coordinati tra loro. In primo luogo una regolamentazione della pesca, con la mappatura delle zone e l’istituzione del fermo biologico, per impedire un fenomeno già evidente, la scarsità di pesce lungo la costa. Poi la sicurezza dei pescatori, tanto più che sono spinti dalla scarsità del pesce ad andare molto al largo: Marapa fornisce nuove imbarcazioni e attrezzature come il Gps. Ancora: la formazione, perché “a Sao Tomè basta essere figli di pescatori per diventare pescatori, ma spesso la formazione manca, dalle tecniche di pesca a quelle di conservazione e trasformazione del prodotto”, dice Gilberto. E poi tutti i problemi della salute e dell’ambiente: “la tartaruga marina confonde la plastica che è in mare con il cibo”. La società dei consumi è arrivata purtroppo anche qui, come mi spiega anche un amico pescatore subacqueo, che ha visto in questi anni il mutamento dei fondali. Marapa converge sulla nostra idea di una società mista pubblico-privata per la pesca, la conservazione e la trasformazione del pescato e la gestione dell’impianto per la pesca industriale di Neves (si veda “La terra dove il pesce è vita”, 6 luglio 2015). Una società costituita dallo Stato, che conferirebbe la struttura e la concessione della licenza di pesca, e da un’impresa straniera, che conferirebbe la flotta e l’impegno di gestione della struttura. La società dovrebbe collaborare con le piccole imprese locali esistenti, assumere una parte dei pescatori artigianali e/o acquistare parte del loro pescato, collaborare con le associazioni delle “palaié” per la vendita, per esempio nelle zone rurali del paese, dove oggi il pesce non arriva… Insomma, l’obbiettivo è una sorta di distretto della pesca, con un coordinamento tra tutti gli attori. In questo settore, dice Gilberto, “l’innovazione va portata dal di fuori ma al tempo stesso va fatta nascere dall’interno”. Sono parole che mi sono rimaste impresse, perché valgono per tutti i settori dell’economia e della società saotomensi. Ecco perché suggeriamo incentivi sia per la nascita o lo sviluppo di imprese saotomensi sia per gli investimenti di imprese straniere, che trasferiscano tecnologie ed esperienze e siano ispirate al criterio della responsabilità sociale e ambientale. Non c’è contraddizione tra questi due obbiettivi, anzi: sono complementari tra loro. Ed ecco perché acquista particolare importanza il partenariato tra imprese saotomensi e imprese straniere, con un ruolo, quando è necessario, dello Stato (si veda “Fuggire dalle vecchie idee”, 26 luglio, e “Sviluppo a Sao Tomè, c’è spazio per le imprese italiane”, 16 agosto). Quello che va evitato è quello che accade oggi: la depredazione delle risorse saotomensi da parte di imprese straniere. Come nella pesca: nelle acque di STP la pesca industriale la fanno i pescherecci spagnoli, giapponesi e cinesi, che versano pochi soldi allo Stato, si portano via tutto il prodotto e non toccano il suolo di Sao Tomè. A bordo di queste navi non ci sono nemmeno gli osservatori saotomensi per controllare il rispetto degli accordi. Diamo alle cose il loro nome: questo è neocolonialismo.
Giorgio Pagano
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