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Non può stare a casa sua chi una casa non ce l’ha più

a cura di in data 12 Marzo 2023 – 22:53Nessun commento

Sal, Cabo Verde, donne che vendono il pesce
(2020) (foto Giorgio Pagano)

Città della Spezia, 12 marzo 2023
di Giorgio Pagano

“Io non partirei se fossi disperato perché sono stato educato alla responsabilità di non chiedermi cosa devo chiedere io al luogo in cui vivo ma cosa posso fare io per il Paese in cui vivo, per il riscatto dello stesso”. Sono le parole pronunciate il 27 febbraio dal ministro dell’Interno Piantedosi, il giorno dopo il tragico naufragio sulle coste calabresi in cui hanno perso la vita 73 persone, donne e bambini soprattutto. Il 28 febbraio il ministro ha aggiunto: “La disperazione non può mai giustificare condizioni di viaggio che mettono in pericolo la vita dei propri figli”.
In sostanza: “Statevene a casa vostra”. La questione che il ministro non capisce è che questa gente la casa non ce l’ha più. I rifugiati senza casa nel mondo sono più di 100 milioni e crescono ogni giorno. Le vittime di Cutro erano persone afghane e siriane. Andate in Afghanistan e in Siria: milioni di disperati sono senza un tetto, senza un posto in cui tornare. Non hanno alternativa alla fuga. Cercano da noi un rifugio, abbiamo il dovere di darglielo. Dobbiamo accoglierli, come ci impongono i nostri principi e i nostri valori. Come abbiamo fatto con gli ucraini.
Piantedosi ignora, evidentemente, che migrare è un diritto fondamentale, stabilito dagli articoli 13 e 14 della Dichiarazione universale dei diritti umani, dall’articolo 12 del Patto internazionale del 16 dicembre 1966 e perfino dall’articolo 35 della nostra Costituzione, e che è perciò un illecito ostacolarne l’esercizio. Ma soprattutto è una ferita insanabile alla nostra coscienza morale di essere umani. Io sono un cooperante, mi batto perché, con la cooperazione internazionale, sia garantito il “diritto di restare”. Ma le vittime del 26 febbraio potevano esigere solo il “diritto di migrare”. Dove mai avrebbero potuto restare? Tutti i profughi afghani e siriani vengono dalla Turchia, dove – lo dice da anni l’Agenzia Onu Unhcr – non ci sono risorse sufficienti per accogliere dignitosamente milioni di persone che scappano dai talebani, dall’Iraq o dalla Siria distrutti. Senza una prospettiva di rientro nel Paese d’origine, l’unico modo per sopravvivere è farsi mandare i soldi dai parenti e tentare una fuga via mare o sulla rotta balcanica.
Ciò che serve con urgenza è un programma di ricerca e salvataggio pubblico, italiano intanto, e poi con il sostegno dell’Unione Europea. E’ questo che il nostro governo deve chiedere all’Europa per fermare la strage. Ma è di questo che non c’è traccia. Prevale l’ostilità ostinata ai salvataggi in mare. Essa si è manifestata con il cosiddetto “decreto ong” dello scorso febbraio, che introduce ostacoli ai salvataggi, come il divieto dei cosiddetti salvataggi multipli, e prevede, per i comandanti che violino queste e altre assurde prescrizioni, sanzioni da 10 a 50.000 euro, il fermo per due mesi e, nei casi di reiterazione delle violazioni, la confisca della nave utilizzata per i salvataggi. Si continua a penalizzare il soccorso in mare, condotta non solo lecita ma anche morale ed “eroica”.

Sal, Cabo Verde, molo dei pescatori
(2020) (foto Giorgio Pagano)

Ma si può operare diversamente: dopo la tragedia nel crotonese la guardia costiera ha scelto di andare incontro ai barconi il prima possibile e ha cambiato strategia. Venerdì pomeriggio ha annunciato con un comunicato, diffuso insieme a una mappa molto dettagliata su quanto stava accadendo in mare, l’impiego di cinque motovedette classe 300 e della ben più grande nave Dattilo per soccorrere tre pescherecci con 1.300 migranti. Uno 70 miglia a sud di Crotone, due 100 miglia a sud-est di Roccella Jonica. Distanze ben più ampie e numeri molto maggiori di quelli del barcone naufragato a Steccato di Cutro il 26 febbraio, che era stato avvistato da Frontex a 40 miglia dalle coste calabresi e trasportava meno di 200 persone.
Questa è la direzione da intraprendere, chiedendo il sostegno europeo.
La propaganda governativa sulla lotta agli scafisti lascia il tempo che trova. La verità è che la lotta va fatta alla mafia dei trafficanti. Gli scafisti sono in realtà migranti costretti dai trafficanti a guidare la barca. Basta leggere le loro testimonianze, o gli atti dei processi, per capirlo. Sono i trafficanti quelli che organizzano i viaggi e si arricchiscono alle spalle di chi non ha alternative. Sono loro che decidono quando mettere in mare le barche. E che spesso costringono con la violenza i profughi a salire a bordo di barche fatiscenti.
La seconda verità è che l’Italia paga lautamente la Libia per colpire i trafficanti, ma i risultati sono molto scarsi. Anche la Turchia riceve una montagna di denaro per questo compito, ma non lo adempie. In questi due Paesi la corruzione è dilagante. Gli italiani e gli europei continuano a pagare, ma contro i clan libici e turchi – organizzazioni attive da anni – nessuno fa nulla. Servono squadre investigative europee, miste, con la possibilità di indagare sui territori libici e turchi.
Il governo italiano deve proporre all’Europa uno schema del tutto nuovo rispetto all’attuale. E deve, con i suoi comportamenti, smetterla di legittimare e di assecondare l’indifferenza per le sofferenze e la mancanza di umanità. “Odio gli indifferenti!” (Antonio Gramsci) e “Restiamo umani” (Vittorio Arrigoni”) devono essere la nostra bussola. Dante, nella “Divina Commedia”, gli indifferenti che non restano umani li fa tormentare da continue punture di vespe e mosconi.

Post scriptum
le fotografie di oggi sono state scattate nel molo dei pescatori di Sal (Cabo Verde) nel 2020.

Giorgio Pagano

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