La nostra Africa
Città della Spezia, 29 gennaio 2023
di Giorgio Pagano
IL “DIRITTO DI MIGRARE”
La Spezia, ospitale come sempre nella sua storia, ha accolto i 237 migranti soccorsi in mare dalla Geo Barents, la nave di Medici senza Frontiere.
Ma non si può non riflettere su ciò che ha preceduto lo sbarco: il ministero degli Interni ha assegnato alla nave un porto distante più di mille chilometri dal luogo dei soccorsi. Perché tre giorni di navigazione in più in un mare in burrasca, per persone già provate da una lunga odissea? Inoltre lo stesso ministero ha imposto alle navi umanitarie, dopo aver effettuato un solo soccorso in mare, di dirigersi immediatamente verso il porto assegnato, senza effettuare ulteriori soccorsi di imbarcazioni in difficoltà. Ordine a cui la Geo Barents – giustamente – non ha obbedito.
Il vero obiettivo del governo – hanno scritto ieri in un comunicato diverse associazioni spezzine – è “tenere le navi delle associazioni umanitarie lontane dalle zone di ricerca e soccorso e scoraggiarne gli interventi”. Il prezzo più duro sarà quindi pagato non dalle Ong ma dalle persone che fuggono attraverso il Mediterraneo e si trovano in situazioni di pericolo.
L’ammiraglio in congedo Vittorio Alessandro, 31 anni nella guardia costiera, al Mediterraneo ha dedicato passione e impegno. Alla Spezia è stato apprezzato anche come Presidente del Parco delle Cinque Terre. Ora è componente del comitato per il diritto al soccorso e, dopo aver letto il decreto Piantedosi, ha visto subito giusto:
“Dice il governo che così diminuiranno le partenze, ma non è vero: la gente continuerà a partire sempre, come può. Saranno gli arrivi a ridursi e il saldo sarà quello, insostenibile, di altre vittime in mare”.
Il decreto, inoltre, contraddice l’obbligo del capitano di prestare assistenza immediata alle persone in difficoltà, sancito da tutte le leggi del mare. Del resto, chi può prestare questa assistenza se non le Ong, visto che i governi vi hanno rinunciato? Se non operassero le ong, la tragedia sarebbe ancora più immane.
Ma, si dice, bisogna “gestire il fenomeno migratorio”. Il problema è che l’Italia e gli altri Stati europei hanno cercato e stanno cercando di farlo con accordi sottoscritti con i Paesi denominati “di transito”, come la Libia o il Marocco o la Turchia (nel caso dei profughi siriani e afghani). Risultati però non ce ne sono stati, se non quello di creare ulteriori pericoli per i migranti. Copiosi finanziamenti costantemente elargiti dalla Comunità Europea sono gli strumenti con cui questi Stati “di passaggio” svolgono il ruolo di guardiani dei confini del nostro continente. Basti citare le condizioni disumane – ampiamente documentate da osservatori indipendenti e da report ufficiali delle Nazioni Unite – che decine di migliaia di migranti devono subire nei “lager” libici, per capire gli enormi limiti di questa strategia.
IL “DIRITTO DI RESTARE”
Non resta, allora, che una strada: da un lato accogliere chi esercita il “diritto di migrare” e, dall’altro, garantire chi vuole esercitare “il diritto di restare”, e anche di “tornare” nel proprio Paese. Quest’ultimo diritto necessita di politiche di cooperazione internazionale che favoriscano quanto proposto nel 2020 da 100 intellettuali africani: una “seconda ondata della nostra indipendenza politica” che abbia come obiettivo “uno sviluppo endogeno, per creare valore qui, al fine di ridurre la nostra dipendenza sistemica” alternativo al “liberalismo economico” e “alle pratiche estrattive degli attori esterni”.
Bisogna raccontare l’Africa – o meglio le tante Afriche – evidenziando non i deficit, magari con un po’ di pietismo, ma le capacità degli africani. Ed evitare di descrivere gli occidentali impegnati nella cooperazione come “eroi”. Ha scritto Marco Trovato, direttore di “Africa”:
“L’Africa ha terre agricole e risorse sufficienti non solo ad assicurare il fabbisogno della sua popolazione ma a sfamare il pianeta intero. Eppure ancora oggi dipende da importazioni e aiuti alimentari. Non solo. Il continente vanta enormi ricchezze energetiche e straordinarie potenzialità legate alle rinnovabili, ma paradossalmente il 60% dei suoi abitanti vive al buio senza elettricità. Le fragilità e le contraddizioni emerse in questi mesi ricordano una volta di più l’urgenza di cambiare modello di sviluppo. L’economia africana finora è dipesa totalmente da esportazioni di metalli strategici, idrocarburi, prodotti naturali grezzi. Le finanze dei governi non possono più sottostare a dinamiche di mercato e a prezzi controllati dalle potenze egemoni. L’Africa uscirà migliore da questa crisi se saprà imparare la lezione, credendo in sé stessa. E se noi le permetteremo finalmente di essere padrona del suo destino”.
Non è impossibile, anzi. Nei giorni scorsi ero a Firenze, in occasione della visita in Italia di rappresentanti dei governi locali e della società civile del Senegal, Niger e Burkina Faso per un confronto con i sistemi territoriali della Toscana. L’incontro si è tenuto nell’ambito del progetto LOG-IN networks, finanziato dalla Regione Toscana, che ha visto, nel corso di tre anni, il coinvolgimento di oltre venti partner provenienti da Senegal, Burkina Faso e Niger, oltre a quelli toscani ed italiani – tra cui l’associazione Funzionari senza Frontiere, che presiedo. L’obiettivo era ed è di accompagnare gli enti locali e le comunità territoriali africane nella costruzione dello “sviluppo endogeno”.
In effetti – spiega l’assessore alla Cooperazione Internazionale della Regione Toscana Serena Spinelli – grazie al progetto i nostri partner africani “hanno potuto migliorare la loro capacità di pianificare lo sviluppo locale, secondo una logica partecipativa, nella quale le comunità coinvolte hanno potuto trovare momenti di elaborazione e di ascolto”. Benefici ne sono venuti anche ai partner italiani: quando il rapporto è tra Comuni e tra comunità locali, lo scambio è sempre reciproco. Perché fanno lo stesso mestiere e hanno sfide comuni.
Il progetto ha poi visto protagonista un altro attore: la diaspora in Italia, particolarmente quella del Senegal, coinvolta in progetti di sviluppo nel Paese di origine. Si è anche in questo modo creata una rete che durerà nel futuro. Il ruolo della diaspora, dice Carla Cocilova di ARCI Toscana, “cambia la narrazione sui migranti, che non sono più un’emergenza ma sono portatori di competenze e diventano attori della cooperazione”. E’ la cooperazione, aggiunge, “che costruisce qualcosa di duraturo nel tempo”.
E’ la cooperazione che serve: quella dove vi è la compresenza di piccoli gruppi che sostengono piccoli progetti e fanno partenariato. Serve di più della cooperazione di organizzazioni che hanno un budget annuale di molti milioni di euro. Sono stato impegnato anche in questo tipo di cooperazione. Ho fatto per un anno il presidente volontario di una Ong che opera nel sistema attualmente dominante, quello dei progetti con monitoraggio e valutazione dei risultati. Ma me ne sono ritratto. In due/tre anni devi risolvere un problema e dimostrare che è stato decisivo l’apporto del progetto attraverso una valutazione indipendente. I progetti vanno, tuttavia, “vinti”, devi aggiudicarti la gara con decine di concorrenti, cofinanziare i progetti e indebitarti, cercare di assumere una logica sempre più aziendale. E poi? Spesso in tre anni si risolve poco. Te ne vai, cambi Paese e progetto. Ma la cooperazione è molto di più, è creazione di legami di lungo periodo che in qualche modo esprimono la negazione stessa del progetto che per definizione è a termine. La cooperazione è impegno che si mantiene, è partenariato, è legame delle dipendenze reciproche. Che non sono un male da evitare ma un bene da ricercare.
I sindaci e gli amministratori locali africani che ho incontrato a Firenze ci hanno fatto capire quanto sia cresciuto il processo di decentramento amministrativo, e quindi di partecipazione e di mobilitazione di forze locali. E sono stati contagiosi per la loro volontà di non arrendersi alle difficoltà e di battersi per il cambiamento.
“I Comuni rurali del Senegal mancano di tutto – mi dice Abdou Aziz Diome, Sindaco di Thiakar – ma dobbiamo credere nella possibilità di cambiare le cose”. La diaspora, aggiunge, “può investire in allevamento e in agricoltura, con agevolazioni fiscali”. Ora, nel suo Comune, sta pensando di “dar vita a una zona industriale”.
Amadou Hamath Toure, funzionario del Comune di Linguère, Senegal, dove la disoccupazione è al 70%, mi racconta lo sviluppo dell’orticultura, il lavoro delle “donne che trasformano i prodotti alimentari, il miglio per il couscous e l’olio di sump, l’albero dei datteri del deserto”.
Samba Faye, funzionario del Comune di Thies, Senegal, descrive un’esperienza che conosco bene, perché supportata da Funzionari senza Frontiere e da Informatici senza Frontiere: la digitalizzazione dello stato civile e dell’anagrafe del Comune, che ha realizzato dopo un periodo di formazione nel Comune di Pontedera. Ora su 600 Comuni senegalesi un centinaio ha stato civile e anagrafe digitalizzati, quasi la metà con il supporto del Comune di Thies. Decisivo è stato l’apporto della diaspora: l’associazione Senegal Solidarité, che raduna i senegalesi toscani, ha inviato 800 computer, mi ricorda il suo presidente Mamadou Diop. In questo modo, spiega, “un ragazzo può proseguire gli studi, perché se i suoi documenti sono solo nei registri cartacei possono essere perduti o distrutti dalle alluvioni”.
Oggi l’attenzione all’Africa è tutta per i flussi migratori. Certamente va garantito il “diritto di migrare”, soprattutto nel momento in cui i cambiamenti climatici, oltre che le emergenze politiche, sociali ed economiche, provocano flussi forzati. Ma certamente va tutelato anche il “diritto di restare” o di tornare nella terra in cui si è nati, con politiche di prevenzione delle “migrazioni forzate”. Il fenomeno può essere governato solo con una visione lungimirante, che all’opera di accoglienza e di integrazione di chi è costretto a fuggire accompagni l’opera per eliminare alla radice i fenomeni che sono alla base della fuga: le guerre, la fame, il cambiamento del clima.
La Spezia ha accolto 237 migranti. Ma ora deve – come la Regione Liguria – riprendere a fare cooperazione internazionale, dopo molti anni di assenza. Non servono grandi risorse, ma buone idee e persone che ci credano. Che abbiano ancora il sogno di cambiare il mondo (e non di prendere il potere).
Post scriptum:
Per le proposte contenute in questo articolo rimando ai miei libri “Sao Tomé e Principe-Diario do centro do mundo” (2017) e “Africa e Covid-19. Storie da un continente in bilico” (2020), e ai siti www.associazioneculturalemediterraneo.com e www.funzionarisenzafrontiere.org
Nelle due foto in alto potete vedere, nella prima, Samba Faye e Mamadou Diop; nella seconda, Amadou Hamath Toure. Nella foto in basso sono ritratto con Abdou Aziz Diome.
Giorgio Pagano
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