Dalla tragedia si esce solo dando uno Stato ai palestinesi
Città della Spezia, 16 maggio 2021
di Giorgio Pagano
Quello che sta accadendo in Palestina e in Israele non è un fatto improvviso. Anzi, era purtroppo inevitabile: da quando il Presidente americano Trump ha riconosciuto Gerusalemme come capitale dello Stato ebraico, i governi presieduti da Benjamin Netanyahu hanno lavorato sistematicamente per accelerare il processo di colonizzazione dei territori palestinesi e di “ebraizzazione” di Gerusalemme est, la “Città vecchia” araba. I palestinesi non potevano non opporsi. E’ drammaticamente sbagliata la reazione, ispirata all’odio, di Hamas. Ma il problema principale non è Hamas, è ciò che viene prima: l’occupazione dei territori palestinesi, la costruzione di un regime di apartheid -in cui un popolo è privo di diritti, come una volta i neri nel Sudafrica dei colonizzatori bianchi-, l’”ebraizzazione” di Gerusalemme est.
CHE COS’E’ l’”EBRAIZZAZIONE” DI GERUSALEMME EST
Il tentativo di cacciare 28 famiglie palestinesi dal quartiere di Sheikh Jarrah è stata solo l’ultima goccia.
La storia recente di Gerusalemme aiuta a capire. Al termine della guerra arabo-israeliana del 1948-1949, la Città Santa fu suddivisa in due parti: Gerusalemme Ovest, sotto controllo israeliano, e Gerusalemme Est, sotto controllo giordano. È questa la configurazione spaziale della città ancora oggi riconosciuta come legittima da gran parte della comunità internazionale. Nel 1967 Israele occupò militarmente, tra i vari territori, anche Gerusalemme Est, dichiarando successivamente la Città Santa unificata capitale unica e indivisibile dello Stato di Israele. Le Nazioni Unite non hanno mai riconosciuto questa annessione, e hanno sempre chiesto il ritorno ai confini pre-1967. Ma, fin dall’indomani dell’occupazione, Israele ha lavorato per consolidare l’annessione e per rendere una futura ridivisione della Città Santa di fatto impossibile.
Così Francesco Chiodelli, dell’Università di Torino, spiega quanto è avvenuto:
“Il processo di ‘ebraizzazione’ ha preso corpo attraverso l’espansione fisica della città ebraica nelle aree palestinesi di Gerusalemme Est. In particolare, è stata promossa una poderosa operazione di edificazione residenziale che, nel giro di pochi decenni, ha permesso l’insediamento di più di 200.000 ebrei (pari a circa il 40% della popolazione ebraica della città) a Gerusalemme Est. La maggior parte di queste aree residenziali ebraiche è stata costruita grazie al supporto delle autorità. Si tratta, in sostanza, di quartieri di edilizia pubblica. […]
A ciò si è accompagnato un implacabile processo di de-arabizzazione, finalizzato in primis a diminuire il controllo palestinese del suolo di Gerusalemme Est. Ciò si è inverato soprattutto in ostacoli quasi insormontabili all’espansione urbana dei quartieri arabi. La de-arabizzazione di Gerusalemme è stata perseguita anche tramite l’espulsione di palestinesi da aree da loro abitate da tempo, come nel caso di Sheikh Jarrah. Questi ultimi casi sono un tassello eclatante e drammatico, ma invero quantitativamente minoritario, del processo di de-arabizzazione, le cui forme ordinarie sono ben più sottili. Tra queste, per esempio, la mancata infrastrutturazione dei quartieri arabi con i più basilari servizi pubblici, fatto che ha reso la vita dei palestinesi in città estremamente complessa”.
CHE COS’E’ L’APARTHEID
Le parole di Teddy Kollek, Sindaco di Gerusalemme per 28 anni, dal 1965 al 1993, non lasciano spazio a equivoci e chiariscono che Israele è uno Stato di apartheid:
“Continuiamo a dire che vogliamo rendere i diritti degli arabi di Gerusalemme uguali a quelli degli ebrei… sono parole al vento… Gli arabi erano e rimangono cittadini di seconda, anzi di terza classe. Per gli ebrei di Gerusalemme negli ultimi 25 anni ho fatto moltissime cose. Cosa ho fatto per gli arabi di Gerusalemme Est? Niente! Marciapiedi? Nessuno. Centri culturali? Nessuno. Abbiamo installato un sistema fognario e migliorato la rete idrica. Ma sapete perché? Pensate che lo abbiamo fatto per il loro benessere? Scordatevelo! C’erano stati alcuni casi di colera in quelle aree e gli ebrei erano spaventati dalla possibilità di essere contagiati a loro volta. Abbiamo adeguato il sistema fognario e idrico delle aree arabe solo per questo motivo”.
Dopo Kollek Israele è andato avanti nel suo disegno, inesorabilmente. Dopo Trump, con modalità sempre più violente. Ho seguito un progetto in Palestina dal 2018 al 2020, fino all’esplosione della pandemia. Così descrivevo Gerusalemme nel 2018, dopo sette anni di assenza:
“Arrivato a Gerusalemme, ho visto con dolore la parte araba. E’ come se fosse stata stuprata. Davanti alla porta di Damasco, che porta al suk, sono state collocate due orribili postazioni militari israeliane. Soldatesse e soldati israeliani armati pattugliano ogni angolo di Gerusalemme est. Sono stato nella Città Santa tante volte in passato, tra il 2005 e il 2011: ciò che ho visto in questi giorni in quegli anni sarebbe stato impensabile. Il processo di ‘ebraizzazione’ della città è andato molto avanti. Il controllo di Israele sulla parte araba è progressivamente aumentato. Nelle vie principali della kasbah gli israeliani hanno comprato case, addobbate con le loro bandiere. Nessun palestinese potrebbe mai farlo a Gerusalemme ovest. Nel frattempo sono cresciute le differenze strutturali e sociali: solo il 10% circa del bilancio municipale è dedicato ai quartieri arabi.
La ‘spianata del Tempio’, che gli arabi definiscono Haram ash-Sharif (‘il Nobile Recinto’), con il fulgore della Qubbat as-Sakhra (‘la Cupola della Roccia’), è una delle meraviglie del mondo. Per rivederla mi sono alzato molto presto. Dopo una lunga fila, e controlli serrati di polizia e militari israeliani, sono riuscito finalmente a entrare. La passerella di legno che conduce alla spianata è grottesca. Transennata ai lati, chiusa sopra, circondata da filo spinato in alcuni punti, dà il senso di come il terzo luogo sacro dell’Islam -dopo La Mecca e Medina- sia stato accerchiato” (“Gerusalemme appartiene a tutti”, “Micromega”, 9 novembre 2018, leggibile in www.associazioneculturalemediterraneo.com).
Potrei andare avanti a lungo nel racconto: 22 mila ordini di demolizione di case palestinesi, il progetto della “Silicon Valley” israeliana in una zona dove ora sono botteghe e piccole attività commerciali palestinesi, il nuovo tram che passa solo per i quartieri ebraici, così come farà la nuova funivia…
Nei giorni scorsi gli israeliani hanno fatto un raid durante la preghiera del Ramadan nella “spianata del Tempio”. Ma che cosa potevamo aspettarci?
Va aggiunto che questo processo storico di discriminazione e di umiliazione del popolo palestinese è stato formalizzato con la legge approvata il 19 luglio 2018, che ha definito la natura dello Stato e i suoi caratteri fondamentali. Abbandonando ogni remora, Israele si è autodefinito come uno Stato etnico-religioso, nel quale l’autodeterminazione “è esclusivamente per il popolo ebraico” e sono stati riconosciuti gli insediamenti dei coloni nei territori occupati come “valore nazionale”. L’apartheid è stata “costituzionalizzata”.
NON E’ UN CONFLITTO TRA RELIGIONI, MA PER LA TERRA
Il conflitto israelo-palestinese non è un conflitto tra religioni, come fanno credere Netanyahu e anche Hamas. E’ un conflitto per la terra, per gli spazi. Nessuna operazione militare, né da una parte né dall’altra, potrà porre fine al conflitto. Il problema non svanirà, ma si aggraverà senza una soluzione politica che preveda un accordo sulla suddivisione della terra, cioè i due Stati: Israele e Palestina. Senza uno Stato vero per i palestinesi sarà una tragedia continua, e una mina per il mondo intero: il cuore della “terza guerra mondiale a pezzi”. La soluzione è difficile, forse ormai impossibile, perché la politica ha fallito. La scomparsa della sinistra in Terrasanta è stata una tragedia: non c’è più l’”altro Israele”, mentre Hamas è cresciuta nella sconfitta di Fatah, causata dai suoi errori ma soprattutto dalle false promesse dell’Occidente, che hanno lasciato campo libero a Netanyahu e a Hamas. Un filo di speranza sta in Biden: chissà se ci stupirà, come sta facendo con la sua politica interna. I popoli devono premere sui loro governanti, anche in Italia e in Europa, per fermare una crisi arrivata sull’orlo del baratro. Per questo oggi pomeriggio sarò in piazza Europa: non possiamo voltarci dall’altra parte. Ma la speranza è soprattutto in quelle donne, in quelle famiglie, in quegli anziani che sono tutti in strada a Gerusalemme, a mani nude. La disobbedienza civile è la più forte forma di resistenza.
Post scriptum:
Nella foto in alto vedete la bellezza di Gerusalemme al tramonto; sulla sinistra splende Qubbat -as Sakhra.
La foto in basso è stata scattata nel Walled Off Hotel di Banksy a Betlemme, situato davanti al Muro, che ospita un Museo sulla storia del Muro. Le scritte in tedesco nei cartelli delle donne palestinesi significano “Le vittime di oggi sono Martiri” e “Mai più il blocco di Gaza”.
Dedico l’articolo di oggi a un amico scomparso, Pietro Cavallini, simbolo del socialismo spezzino e dell’impegno per una scuola nuova aperta a tutti, senza discriminazioni. Il mio ricordo, dal titolo “Pietro Cavallini, politico ed educatore all’avanguardia”, è pubblicato su questo giornale, nella rubrica “Lettere a Cds”
lucidellacitta2011@gmail.com
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