Contro l’indifferenza
Città della Spezia, 5 aprile 2023
di Giorgio Pagano
Qualche giorno fa -al mattino con gli studenti, alla sera con i cittadini interessati- si è discusso alla Spezia delle atrocità commesse dai guardiani dei confini dell’Europa nei confronti di chi rivendica il diritto a vivere e si ritrova a percorrere la “rotta balcanica”.
Ma cos’è la “rotta balcanica”? Lo ha spiegato Gianfranco Schiavone, studioso di migrazioni: è un ampio spazio sociale e geografico, all’interno dell’Europa, che da almeno venticinque anni è attraversato da buona parte dei rifugiati che arrivano da zone di conflitto e persecuzioni in Asia e in Medio Oriente, in primo luogo Siria, Afghanistan e Iraq. Le statistiche ci spiegano che la maggioranza di coloro che in Europa vengono riconosciuti come rifugiati giungono proprio attraverso la “rotta balcanica”. Ma il dato in Italia è poco studiato e conosciuto.
Ma come affronta il problema l’Europa, e perché è giusto parlare di “atrocità”?
Schiavone ha spiegato che la Commissione europea, nel dicembre 2022, ha presentato il Piano d’azione dell’Unione sui Balcani occidentali: un documento che ricalca, purtroppo, l’orientamento dell’Unione europea in materia di migrazioni.
L’Unione europea cerca cioè di fare nell’area balcanica quello che ha fatto con altri Paesi fuori dall’Unione e dall’Europa, come in Turchia: trasformare questa regione in una grande area di confinamento dei rifugiati, pagare questi Paesi perché si tengano i rifugiati che non si vuole che arrivino in Ue e perché collaborino in ogni modo possibile ai respingimenti ai confini esterni dell’Unione. Per realizzare questo obiettivo la Commissione ha previsto la costruzione di strutture di accoglienza per i rifugiati nei Paesi balcanici che non sono della Ue. Nel documento non si parla assolutamente di “politiche di asilo”, non c’è nessuna ipotesi di aiutare questi Paesi a diventare accoglienti per i richiedenti asilo e di prevedere percorsi di integrazione sociale. Non è questo l’interesse dell’Unione che vuole solo che le persone stiano al di fuori dei propri confini, in qualunque modo ciò avvenga. In questo modo i campi di accoglienza diventano campi di detenzione (di fatto o di diritto) e comunque luoghi di segregazione, di confinamento, di isolamento dei rifugiati.
Possiamo non chiamarli campi di concentramento perché non è previsto lo sterminio, come ai tempi del nazismo. Ma dobbiamo sapere -dato che l’unico obiettivo è quello di bloccare le persone che hanno un bisogno di protezione internazionale al di fuori dell’Europa- che queste persone vengono confinate in luoghi dove non hanno nessuna prospettiva: non possono tornare indietro, non possono arrivare in Unione europea, non possono integrarsi all’interno dei Balcani perché nessuna misura di integrazione sociale è prevista.
L’Unione europea potrebbe prevedere una quota di persone da accogliere, sulla base di un principio di equa ripartizione delle responsabilità e quindi anche di equa ripartizione delle presenze. Ma non finge nemmeno di farlo. L’unico progetto è confinare queste persone e pagare i Paesi che lo fanno. E’ una politica priva di alcuna prospettiva, se non la catastrofe: perché prima o poi la tragedia esploderà. I Paesi che paghiamo non potranno a lungo reggere una situazione del genere: è impensabile che possano farlo. Ma la nostra Europa dal pensiero corto a questa catastrofe annunciata nemmeno ci pensa.
L’Italia è pienamente coinvolta in tutto questo. Infatti lungo il confine con la Slovenia, appena a nord di Trieste, quelle poche persone richiedenti asilo che hanno percorso la “rotta balcanica” e sono riuscite ad arrivare al confine con il nostro Paese incorrono in respingimenti illegali da parte della polizia di frontiera italiana e vengono private della possibilità di identificarsi e richiedere asilo, come sarebbe loro diritto. Tali operazioni sono state introdotte da parte del Ministero dell’Interno nel maggio del 2020. Un anno più tardi il Tribunale di Roma ha stabilito l’illegalità delle procedure di fermo, che pertanto sono state sospese.
Ma il 28 novembre del 2022 il nuovo governo le ha riattivate.
L’Italia non si oppone minimamente alla folle politica dell’Europa perché è esattamente la folle politica che sta facendo essa stessa con la Libia: una forma di confinamento in un Paese terzo che è molto più violenta ancora di quella che avviene sulla rotta balcanica o verso la Turchia. L’Italia e l’Europa, in Africa, vogliono farlo anche più a Sud, in Niger, come ho spiegato nell’articolo di questa rubrica “Sahel, la crisi umanitaria che il mondo ignora” (19 marzo 2023).
Dobbiamo cercare di reagire al tramonto della solidarietà su cui si fonda la costruzione europea, il suo motivo d’essere, la sua anima profonda. Dobbiamo odiare l’indifferenza.
Un modo è quello dei corridoi umanitari. Ne ho scritto nell’articolo di questa rubrica “Le tragedie umanitarie e l’impegno di ciascuno di noi” (28 novembre 2021). Oggi voglio raccontare una piccola ma significativa esperienza accaduta in Val di Magra.
Ricordo innanzitutto che i corridoi umanitari sono un progetto-pilota, realizzato dalla Comunità di Sant’Egidio, dalla Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, dalla Tavola Valdese e dalla Cei-Caritas. Il progetto è nato dopo le tragedie di Lampedusa del 2013-2014. Si è studiato come utilizzare la legge sull’immigrazione in vigore e si è individuata una possibilità: concedere a persone in “condizioni di vulnerabilità” (per esempio, oltre a vittime di persecuzioni, torture e violenze, famiglie con bambini, anziani, malati, persone con disabilità) un ingresso legale sul territorio italiano con visto umanitario.
Le associazioni inviano sul posto dei volontari, che prendono contatti diretti con i rifugiati nei Paesi interessati dal progetto, predispongono una lista di potenziali beneficiari da trasmettere alle autorità consolari italiane, che dopo il controllo da parte del Ministero dell’Interno rilasciano dei visti umanitari con Validità Territoriale Limitata, validi dunque solo per l’Italia. Una volta arrivati in Italia legalmente e in sicurezza, i profughi possono presentare domanda di asilo.
I profughi sono accolti a spese delle associazioni in strutture o case. I progetti sono totalmente autofinanziati dalle associazioni che li hanno promossi.
Vengo al racconto dell’esperienza, che ha visto protagonisti vecchi e giovani volontari dell’associazione Amici di padre Damarco. Una socia -la più anziana e autorevole- ha deciso di mettere a disposizione un appartamento nel borgo di Ortonovo, in Comune di Luni. Gli altri soci si sono prodigati per realizzare il progetto, finanziamento compreso.
E’ così che il 28 marzo 2022 ha preso avvio in Val di Magra la prima esperienza di un corridoio umanitario per profughi di guerra: una famiglia siriana -una giovane coppia- proveniente da un campo profughi in Libano è stata ospitata fino a ottobre nel borgo di Ortonovo.
Gli abitanti del borgo hanno mostrato particolare sensibilità nell’accoglienza. Così come fondamentale è stato il contributo dell’associazione Auser di Luni. Una buona collaborazione si è instaurata con il Comune di Luni.
Il nucleo di volontari ha operato quasi quotidianamente, rispondendo, tra l’altro, a queste necessità:
- sostegno economico e alimentare (utilizzando anche le reti solidali di distribuzione gratuita);
- avvio dell’insegnamento della lingua italiana (utilizzando anche le strutture pubbliche competenti);
- ricerca di un lavoro;
- collaborazione nel disbrigo delle diverse pratiche relative al conseguimento del permesso di soggiorno;
- consulenza legale.
Appena ricevuto il permesso di soggiorno i due giovani sono partiti per Milano, dove hanno incontrato amici e parenti. L’augurio è che facciano la vita che a loro spetta.
I corridoi umanitari non sono ovviamente la soluzione di un problema enormemente complesso. Ma aiutano a trovarla. Perché indicano che ognuno deve fare la propria parte. Ringraziamo di cuore, dunque, l’associazione Amici di padre Damarco, perché ha tracciato la rotta, quella solidarietà.
Post scriptum:
La foto in alto è stata scattata a Sao Tomè, roça di Boa Entrada, nel 2016; la foto in basso a Sao Tomè, roça di Diogo Vaz, nel 2015. Le roças sono strutture agricole di epoca coloniale oggi abbandonate, in molti casi utilizzate come abitazioni dai saotomensi.
lucidellacitta2011@gmail.com
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