Carbonella killer
Africa, 1 giugno 2023
La produzione e il commercio del carbone vegetale, unica fonte di reddito per milioni di persone, distrugge le foreste. Il carbone vegetale è il combustibile più usato nell’Africa subsahariana. Rappresenta la fonte di energia primaria per l’80% delle famiglie. Il suo utilizzo dà lavoro a 40 milioni di persone, ma provoca danni devastanti all’ambiente e alla salute.
di Mariachiara Boldrini
File di uomini spingono biciclette cariche di sacchi di carbonella. Donne sedute su sgabelli a bordo strada vendono secchi di cubi neri. Sono scene comuni per chi viaggi in Africa, dove il carbone vegetale è tuttora il combustibile più usato – più prodotto e più commercializzato – in città come nelle zone rurali e dove, secondo un recente studio della Fao, rappresenta la fonte di energia primaria per l’80% delle famiglie. A sud del Sahara se ne consumano ogni anno 23 milioni di tonnellate.
Viene ricavato da un particolare processo di combustione a basso contenuto di ossigeno chiamato pirolisi o carbonizzazione, che trasforma il legno in piccoli pezzi di “puro carbonio”, molto più efficienti del normale legname. La legna viene ottenuta dai proprietari terrieri, che concedono l’accesso ai terreni sotto pagamento, o gratuitamente nelle terre pubbliche scarsamente regolamentate. Vaste regioni di boscaglia e di foresta sono state letteralmente devastate negli ultimi trent’anni da questa attività. I carbonai producono la carbonella senza forni veri e propri, gettando semplicemente della terra sulla legna che arde, così da farla bruciare lentamente e a basse temperature (per evitare che il legno diventi cenere) anche per una decina di giorni.
Il settore, che vede un giro d’affari di decine di miliardi di dollari, è un’importante rete di sicurezza per i piccoli produttori locali, i trasportatori e i piccoli commercianti. Circa 40 milioni di persone ne ricavano un impiego. Ghana, Nigeria ed Etiopia sono in cima alla lista dei Paesi africani dove viene più prodotta la carbonella vegetale, ma nessun angolo del continente ne è esente. La crescente urbanizzazione e la rapida crescita demografica determinano un incremento costante della domanda, nonostante siano molteplici i rischi per la salute e per l’ambiente, sin dal processo di produzione.
Deforestazione e inquinamento
La produzione di carbone vegetale è uno dei principali fattori di degrado delle foreste nell’Africa subsahariana. Secondo la Banca Africana di Sviluppo, l’Uganda perde ogni anno circa 200.000 ettari di copertura forestale e questo ha comportato, dagli anni Ottanta, una riduzione del terreno boscoso del 16,5%. Nella sola Nigeria, dove le foreste coprono oramai solo il 4% del territorio, il taglio degli alberi distrugge ogni anno circa 350.000 ettari di boscaglia. Il disboscamento è, con l’industria petrolifera, la principale minaccia alla sopravvivenza dell’ecosistema della Riserva forestale di Edumanom, zona tropicale di 9.000 ettari nel Delta del Niger, casa degli ultimi scimpanzè nigeriani.
Il territorio zambiano è coperto di foreste per il 60%, ma Lusaka è tra i Paesi africani con il più alto tasso di deforestazione e, secondo le Nazioni Unite, la produzione di carbone vegetale è la principale causa dei 300.000 ettari disboscati all’anno, con la conseguente drastica riduzione delle scorte di funghi e frutti selvatici da cui dipendono persone e animali. Non va meglio nel Corno d’Africa. La pressione demografica – e la crescente domanda di combustibile domestico – ha fatto sparire il 95% dei boschi che solo cinquant’anni fa prosperavano sull’acrocoro. Non solo.
A causa del disboscamento a fini carboniferi, l’albero sempreverde di acacia, in Somalia un alleato prezioso per allevatori e coltivatori contro la siccità, è stato dichiarato specie in via d’estinzione. La sua scomparsa sta generando l’aumento dell’insicurezza alimentare.
Divieti e regolamentazione
Le dimensioni del problema hanno spinto molti governi a intervenire. Camerun, Ciad, Kenya e Nigeria hanno vietato l’esportazione del carbone, ma la misura non ha fatto che rafforzare le attività illecite. Sempre più spesso il passaggio delle frontiere avviene di notte nella speranza di aggirare la polizia, a cui non di rado vengono allungate mazzette perché chiuda un occhio. La mancanza di regolamentazione genera un terreno fertile per l’insediarsi dei traffici criminali. Il rapporto Unep-Interpol The Environmental Crime Crisis stimava nel 2014 che milizie e gruppi terroristici nei Paesi africani teatro di conflitti – fra cui Mali, Repubblica Centrafricana, Rd Congo e Sudan – possono guadagnare fra i 111 e i 289 milioni di dollari l’anno fra mazzette e partecipazione attiva al commercio illegale del carbone. In Somalia, dove il traffico del carbone è ufficialmente vietato dal 1969, il contrabbando prospera: l’80% del carbone prodotto dalle comunità somale è esportato illegalmente nei Paesi del Golfo da gruppi terroristici e milizie locali, che riescono così ad autofinanziarsi.
Al danno per i governi africani si aggiunge la beffa: l’ampia informalità del settore alimenta l’evasione fiscale impoverendo le casse degli Stati. La Fao stima che le perdite per tasse non pagate si collochino, a livello continentale, fra il miliardo e mezzo e i 3,9 miliardi di dollari. Un esempio tra i tanti: la Tanzania ha distrutto negli ultimi 50 anni ben un terzo delle sue risorse forestali e la produzione di carbonella vegetale è stata causa di 100 milioni di dollari di tasse non riscosse. In Ghana il governo sta tentando di regolamentare l’attività imponendo un tetto alle quantità di legname tagliabile, in aree circoscritte, e tassando i piccoli produttori. Ma i controlli sono insufficienti. Molti sono gli Stati che vietano ai piccoli proprietari di produrre carbone vegetale senza permesso. In Malawi le multe possono arrivare ai dieci anni di reclusione, ma la legge rimane sulla carta.
In assenza di opzioni più economiche, gli africani continuano a utilizzare il carbone vegetale per soddisfare i loro bisogni energetici di base e le strategie messe in atto finora non hanno dato soluzione né alle problematiche dell’ambiente né a quelle della salute. Tutto ciò che brucia è dannoso anche per la salute umana, e quando la carbonella viene bruciata per scopi domestici, di riscaldamento o cucina, i rischi sono ingenti. I bracieri tradizionali producono concentrazioni dannose di PM10 (polveri sottili) e monossido di carbonio, che sono causa di milioni di patologie e infezioni respiratorie. Ogni anno ne restano vittima circa 600.000 persone.
L’esempio ugandese
Le opzioni per rinnovare il mercato, secondo Nora Berrahmouni, funzionario forestale senior della Fao, ci sono: bisognerebbe, per esempio, «incentivare un’estrazione del legno più sostenibile – tagliando un ramo piuttosto che l’intero albero per consentire la ricrescita – o utilizzare forni a carbone migliorati che necessitano di minori quantità di carbone».
L’Uganda è diventata simbolo di innovazione. Per far fronte alla massiccia deforestazione e non gettare i piccoli produttori in braccio alla povertà, è stato messo in atto un sistema che vede gli agricoltori coltivare alberi sia per il legname sia per la legna da carbone in aree degradate della foresta. Kampala, inoltre, ha compreso la necessità della riduzione del carbonio emesso dal settore carbonifero e grazie agli investimenti privati sta facendo scuola, sperimentando modalità alternative di produzione di energia da biomassa. Un esempio è quello di Sanga Moses, giovane contabile che ha lasciato il suo lavoro per creare Eco-Fuel Africa, un’azienda che produce carbone a partire dagli scarti alimentari. Banane secche, caffè e rifiuti agricoli possono diventare fonti energetiche di recupero e propulsore di emancipazione per le donne, che rivendono i bricchetti di combustibile da ardere al mercato locale. Le agenzie governative e le organizzazioni non governative stanno incentivando la produzione su larga scala di questa nuova fonte di energia, che costa ancora meno della carbonella e non genera fumo. È una storia nuova, quella del “carbone verde”.
(Mariachiara Boldrini)
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