Cancellati. I meticci nel colonialismo italiano
Africa, 29 luglio 2023
di Uoldelul Chelati Dirar
Nel suo Diario eritreo, il governatore civile dell’Eritrea Ferdinando Martini (1897-1907) nel giustificare la sua ferma opposizione alla formazione scolastica dei giovani eritrei affermava che sarebbe stata una spesa inutile e auspicava il giorno in cui la questione non si sarebbe affatto posta, immaginando una colonia senza più l’ingombrante presenza degli «indigeni». Queste sferzanti parole riflettevano un più generale orientamento politico e amministrativo fortemente influenzato da logiche razziste che caratterizzava già il primo colonialismo italiano dell’età liberale. Un atteggiamento che si esplicava sia nelle politiche urbane di matrice segregazionista che nel tentativo di regolamentare in senso restrittivo le relazioni tra sudditi coloniali e colonizzatori. Alla base di tale approccio vi era la diffusa convinzione che esistesse una presunta superiorità dell’Europa nei confronti dell’Africa dovuta a un divario di civiltà e quindi di cultura.
Con l’avvento del fascismo si registrò un progressivo riposizionamento dei fondamenti concettuali dell’immaginario razzista, che veniva ora centrato su una dimensione biologica e quindi di discendenza. In questa nuova prospettiva il regime fascista si distinse dal periodo liberale per la sistematicità con cui legiferò in materia razziale e soprattutto per l’approccio marcatamente repressivo di tale intervento normativo (un intervento che anticipò il più conosciuto e famigerato Regio Decreto 17 novembre 1938 n. 1723, “Provvedimenti per la difesa della razza”). Ne è prova il Regio Decreto 19 aprile 1937 n. 880, che introduceva sanzioni per chiunque fosse stato trovato colpevole di intrattenere «rapporti d’indole coniugale» con sudditi coloniali. Con questo provvedimento il regime cercava di aggredire la consuetudine fino a quel momento socialmente non approvata ma tacitamente accettata, che vedeva uomini italiani intrattenere relazioni di tipo coniugale (formali o informali) con donne africane. In ambito coloniale i successivi interventi furono la Legge 29 giugno 1939 n. 1004, che trattava di “Sanzioni penali per la difesa del prestigio di razza di fronte ai nativi dell’AOI” e la Legge 13 maggio 1940 n. 822, “Norme relative ai meticci”.
Erano tutti provvedimenti che si distinguevano per una brutale rilettura in senso razziale della società, tuttavia quest’ultima legge introduceva una profonda e dolorosa frattura nella società coloniale, colpendo i frutti dell’unione tra cittadini italiani e sudditi coloniali, i cosiddetti «meticci». Se in altri contesti coloniali gli afroeuropei erano divenuti attori privilegiati della società coloniale in virtù del loro ruolo di mediatori tra il mondo dei colonizzati e quello dei colonizzatori, nella politica fascista questi venivano espulsi dal mondo dei colonizzatori vedendosi negare il diritto al riconoscimento paterno e quello alla cittadinanza. In altre parole: cancellati!
Ispirata da confuse nozioni di eugenica negativa, la questione del meticciato era diventata una vera e propria ossessione per alcuni dirigenti del fascismo che sollecitavano l’intervento del legislatore, paventando il rischio di una sostituzione etnica nelle colonie. Il provvedimento sollevò la protesta di alcuni funzionari coloniali che non intendevano rinnegare i loro figli e anche della Chiesa cattolica che aveva fatto dei «meticci» una delle sue principali aree di intervento assistenziale in colonia.
Tuttavia, la resistenza più continua alla violenza della legislazione coloniale fu quella posta dalle madri dei «meticci», le quali, coerenti con la tradizione patrilineare della loro società (che riconduceva alla linea paterna la definizione dell’identità della prole), continuarono a crescere e formare i propri figli nell’alveo della tradizione (italiana) del padre attribuendo loro nomi italiani, crescendoli nella fede cattolica (e non in quella ortodossa cui loro stesse appartenevano) e cercando, quando possibile, di farli studiare nelle scuole missionarie. Questa strategia culturale non poteva certamente rimuovere gli ostacoli frapposti dalla legislazione fascista, ma ne intaccava profondamente l’efficacia politica e culturale, ostinandosi a definire e collocare l’identità sociale dei «meticci» in riferimento a quella dei padri italiani.
La ferma dolcezza della resistenza materna offre spunti per una riflessione più attenta sulla complessità dei non troppo distanti trascorsi coloniali. Ci sollecita anche a leggere con maggiore rigore il presente, in tempi in cui il ceto politico italiano si ostina con ottusa e crudele pervicacia a negare diritti di cittadinanza a tanti giovani italiani per via della loro origine non “puramente” italiana, mentre importanti esponenti delle istituzioni ricorrono con inquietante disinvoltura a concetti di sostituzione etnica per giustificare politiche discriminatorie di stampo razzista poco dissimili da quelle di epoca coloniale.
(Uoldelul Chelati Dirar)
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