Il piano Mattei contenitore indistinto
Critica sociale, marzo-aprile 2024
di Giorgio Pagano
Il piano Mattei della presidente del Consiglio Giorgia Meloni e del governo è un contenitore ancora molto generico: «non si vede, per ora, alcuna strategia complessiva», ha scritto in un rapporto Link 2007, rete di ong di cooperazione e solidarietà internazionale.
Il fatto che l’Africa sia diventata, almeno a parole, una priorità politica è un fatto a cui guardare con estremo favore. Ma a patto che non restino parole. E soprattutto che le parole – e i fatti – vadano davvero nella direzione giusta. Una direzione che la Meloni sembra intravedere, quando afferma: «consapevoli di quanto il destino dei nostri due continenti, Europa e Africa, sia interconnesso», il piano deve «rappresentare una pagina nuova nella storia delle nostre relazioni, una cooperazione da pari a pari, lontana da qualsiasi tentazione predatoria».
Sono parole che adopero continuamente anch’io, nella mia esperienza di cooperante in Africa e di giornalista e scrittore.
Ma cosa significano?
Quali dovrebbero essere i contenuti della strategia del piano?
Il primo contenuto sta nel metodo stesso: il piano deve essere “con” l’Africa, non “per” l’Africa. Va cioè discusso e negoziato con gli africani stessi. Noi non sappiamo tutto su quel che serve all’Africa. Ma anche ammesso che lo sapessimo, gli africani non accetterebbero mai approcci e sguardi dall’alto, neocoloniali.
Il piano deve essere inoltre – quantomeno – europeo. La nostra azione non può svolgersi in solitaria, anche per il nostro peso economico non rilevante: solo con una cooperazione più ampia, intergovernativa, può ambire ad avere successo.
Il contenuto più importante, come ha scritto Mario Giro, riguarda «lo spostamento progressivo verso l’Africa di una parte delle produzioni, della manifattura o delle industrie di trasformazione, in specie nel settore agroalimentare». Nel mio operato ho capito che questo tema è fondamentale. Gli africani devono non solo coltivare il cacao, ma anche produrre il cioccolato, e così via. Magari dovremo cedere qualcosa – gli africani non hanno il know how per trasformare le materie prime, noi sì. Lo possiedono non solo le multinazionali ma anche migliaia di produttori piccoli e medi, che potrebbero trasmetterlo e dar vita a partenariati euro-africani tecnologicamente innovativi, portatori di occupazione in quell’immensa Africa rurale che è il maggiore serbatoio delle migrazioni. Servono tempo, tenacia, un pensiero di lungo periodo, ma non c’è alternativa. La strada di coltivare le terre africane puntando solo su monoculture da esportazione è storicamente fallita: crea dipendenza e nessuno sviluppo duraturo. Senza trasformazione in loco non c’è vero scambio paritario. Vuol dire scambio con un vantaggio reciproco: il nostro non consisterebbe tanto nella riduzione delle migrazioni – su questo tornerò – quanto nell’internazionalizzazione e nello sviluppo delle imprese italiane ed europee.
Mentre le multinazionali non hanno tempo e voglia di negoziare accordi e di trasferire conoscenze, le nostre piccole e medie imprese sarebbero i partner ideali per organizzare joint venture. Solamente “produrre a casa loro” significa “aiutarli a casa loro”: l’intreccio su cui puntare è quello della triade cooperazione allo sviluppo –internazionalizzazione delle imprese italiane (ed europee) – nascita dell’imprenditorialità africana. Made in Italy e Made in Africa non sono affatto in contraddizione, anzi.
Un altro settore per partenariati euroafricani è quello della logistica e delle infrastrutture. Un altro ancora – su cui vorrei soffermarmi – è quello delle energie rinnovabili.
Il piano è troppo condizionato dall’interesse italiano a collaborare con i Paesi africani per acquistare il gas che soddisfi le nostre esigenze industriali. Ma così non facciamo il bene del nostro clima martoriato, né in Italia e in Europa né in Africa, dove i migranti climatici sono sempre di più. Oltre 600 milioni di africani vivono ancora senza accesso all’elettricità, in gran parte nella regione subsahariana. Perché non puntare a fonti energetiche pulite ed economiche? Va inventato un modello di elettrificazione adattato a un continente enorme, dalle grandissime distanze e sottopopolato.
A livello energetico servono rinnovabili adattate, più che enormi tralicci distesi per migliaia di chilometri che rischiano guasti e disperdono il 30% dell’energia. È necessario uno sforzo di ricerca tecnologica da fare ora che siamo tutti in fase di transizione. Continuare sulla vecchia strada è sbagliato sia dal punto di vista climatico e ambientale, sia da quello occupazionale – perché i combustibili fossili, compresi i nuovi investimenti per lo sfruttamento dei giacimenti di gas, generano una limitata occupazione e non portano sviluppo economico e sociale nei Paesi produttori – sia da quello politico: l’industria mineraria ha causato danni terribili alla democrazia in Africa, in termini di violazioni dei diritti umani e di corruzione delle classi dirigenti. Anche in questo caso potremmo essere portatori di un modello innovativo, come ha proposto Ecco, il think tank italiano per il clima:
«Uno sviluppo basato sulla transizione permetterebbe di sfruttare le risorse rinnovabili di cui il continente africano è ricco: l’Africa dispone infatti di circa il 60% a livello mondiale di tutte le aree idonee alla produzione di elettricità da fotovoltaico, oltre ad ampie zone costiere oceaniche ideali per l’energia eolica, bacini fluviali per l’idroelettricità e, soprattutto nella valle del Rift, di un grande potenziale geotermico.
Finora, tuttavia, le energie rinnovabili hanno ricevuto solo una frazione dell’attenzione e dei finanziamenti dei progetti sul gas. L’Africa può anche contare su un’ingente disponibilità di materie prime critiche: il continente detiene oltre il 40% delle riserve globali di cobalto, manganese e metalli del gruppo platino, tutti minerali fondamentali per le batterie e le tecnologie dell’idrogeno».
Ma il comune interesse può e deve interessare anche il tema delle migrazioni. Va garantito sia “il diritto di restare” sia “il diritto di migrare”. Il futuro è la migrazione circolare: gli africani possono formarsi in Italia e in Europa, stabilirsi da noi se lo desiderano, attraverso ingressi regolari programmati – dando così una risposta al nostro declino demografico, non affrontabile solo con le politiche per sostenere la maternità – o tornare nel proprio Paese, con una specializzazione, per renderlo migliore. Il partenariato per la nuova rivoluzione industriale ed ecologica, creando nuovi posti di lavoro sia in Africa che in Italia e in Europa, favorisce la circolarità.
Sui movimenti migratori serve un cambio di rotta: il passaggio – scrive Link 2007 – «dall’approccio securitario e dai provvedimenti improvvisati alla volontà di gestire e governare un fenomeno strutturale che nessun muro o filo spinato e nessuna chiusura politica potrà mai riuscire a bloccare».
La migliore e più efficace lotta ai traffici di esseri umani è rappresentata dagli ingressi legali, che da anni sono impediti da una rigida e cieca chiusura dei confini, senza alcuna sana e lungimirante capacità di governo; favorendo così, senza volerlo, proprio l’immigrazione irregolare e i trafficanti che la sostengono.
L’esperienza dei corridoi umanitari non è stata mai presa in considerazione. Da circa dieci anni negoziamo con i Paesi di transito perché trattengano i migranti. Ma questa politica non può funzionare, sia perché non affronta il problema alle radici, sia perché crea dei lager, sia perché si espone a rischi come quello che stiamo correndo in Libia, dove le nostre autorità si accordano con capi-milizie e oscuri gestori di traffici. E dove, come è successo il 4 aprile scorso, la Guardia Costiera libica fa il lavoro sporco di intercettare i migranti e di ricondurli verso i lager da cui sono fuggiti, aprendo il fuoco contro naufraghi e soccorritori da una motovedetta da noi generosamente donata.
Infine – last but not least – i 5,5 miliardi di euro annunciati per il primo quadriennio, grazie agli stanziamenti spostati dal Fondo italiano per il clima e da quello della cooperazione allo sviluppo, sono pochissimi. O si aumentano le risorse, o il piano Mattei rischia di essere – ha scritto Link 2007 – «solo la nuova denominazione della cooperazione italiana per lo sviluppo, con il concentramento delle decisioni a Palazzo Chigi, svalutando il capitale di esperienze, contatti, capacità negoziali, saperi della Farnesina, impossibili da riprodurre».
Enrico Mattei, il fondatore dell’Eni, è la figura da cui il piano prende il nome.
Ciò fa intuire la priorità data dal governo alla ricerca dei combustibili fossili. Ma Mattei fu colui che rivoluzionò il mondo degli idrocarburi, rompendo il monopolio delle cosiddette Sette sorelle e impostando una politica di collaborazione con i Paesi produttori che lasciava loro la maggior parte degli introiti e apriva a forme di cooperazione più eque. Il convinto sostegno di Mattei al diritto di ogni popolo di perseguire il proprio riscatto, anche attraverso l’affermazione della sovranità sulle proprie ricchezze, deve diventare l’effettiva fonte ispiratrice del piano.
Giorgio Pagano
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