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Decolonizzare l’aiuto umanitario

a cura di in data 16 Novembre 2022 – 22:01Nessun commento

Salute Internazionale, 16 novembre 2022

Valutare l’impatto di un progetto di cooperazione in termini di efficacia delle attività svolte può talvolta mettere in evidenza un cosiddetto “gap antropologico”, ossia la misconoscenza dei determinanti culturali che definiscono l’interpretazione che individui e collettività danno al mondo ed alla realtà che li circonda.

di Carlotta Carboni, Danielle De Vito Halevy e Maria José Caldés Pinilla

strong>Lo sguardo antropologico ci guida nella definizione dei differenti modelli, categorie e ruoli sociali, restituendo un proprio significato ai valori, alle credenze ed alle pratiche, nonché ai tabù ed ai significati che si creano attorno ai processi di salute e malattia. Per illustrare l’apporto antropologico in questo particolare contesto, riportiamo un esempio dal campo circa l’allattamento esclusivo in Senegal, dove opera il Centro di Salute Globale (CSG) della Regione Toscana.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) raccomanda l’allattamento materno esclusivo, ovvero l’alimentazione del bambino con solo latte materno, per i primi sei mesi di vita. È inoltre indicato che l’inizio dell’allattamento sia precoce (entro la prima ora dalla nascita). Infatti, le evidenze dimostrano come l’allattamento materno sia uno dei modi più efficaci per garantire la salute, il corretto sviluppo cognitivo e soprattutto la sopravvivenza del bambino (1). Infatti, l’allattamento non esclusivo nei primi sei mesi di vita è inserito tra le forme di malnutrizione secondo l’OMS.
Tuttavia, a livello Globale ancora più della metà dei bambini non ne beneficia (nel 2020 solo il 43,8% dei bambini sotto i sei mesi di età è stato allattato esclusivamente) ed il target del 70%, che l’OMS si prefigge di raggiungere entro il 2030, è ancora molto lontano(2). Questi tassi variano poi notevolmente tra Paesi ed è preoccupante pensare che, in zone già caratterizzate da precarietà socio-economiche, insicurezza alimentare e scarsi livelli igienico-sanitari, si ritrovino tassi ben inferiori alla media mondiale (3). Un esempio arriva dalla regione di Kaffrine in Senegal dove il tasso di allattamento esclusivo raggiunge solamente il 38,4% ed i bambini che vengono allattati entro la prima ora dalla nascita sono solo il 23,2% (4).
La pratica dell’allattamento al seno è condizionata da multipli fattori, primi tra questi i determinanti sociali e culturali (5). Tuttavia, l’osservanza di tale pratica dipende anche dal livello di istruzione delle madri, dalla fruibilità del sistema sanitario e dai determinanti commerciali, ovvero dall’utilizzo di strategie volte a massimizzare i profitti dei produttori dei sostituti di latte materno tramite l’interferenza con le politiche che promuovono l’allattamento al seno (6, 7). L’OMS ha addirittura affermato che i fattori socioculturali sono tra le sei concause principali dei bassi tassi di allattamento materno esclusivo registrati a livello globale (8).
Pertanto, nel condurre una ricerca-azione (9) su tale tematica, è stato per noi naturale sposare le parole di Françoise Duroch, coordinatrice dell’unità di ricerca di Medici Senza Frontiere Svizzera: «L’expertise dell’antropologo è necessaria quando il problema riscontrato non solo riguarda una inefficienza operativa, ma rientra anche nelle sfere dell’intimo: la morte ed i suoi riti, la violenza, la sessualità, l’alimentazione. Ovvero, quando una pratica apparentemente culturale sembra avere delle ripercussioni direttamente apprezzabili sullo stato di salute di una società o di un individuo. Si tratta quindi di ancorare il contesto di intervento a realtà culturali, ma anche sociali, politiche e storiche» (10).
Con l’obiettivo di indagare i determinanti della scarsa osservanza dell’allattamento esclusivo nella regione di Kaffrine, abbiamo effettuato uno studio tramite la metodologia KAP (conoscenze, attitudini e pratiche) ed una serie di focus group che ha coinvolto le donne residenti nei villaggi rurali della regione.
Dalle interviste rivolte alle 100 donne incluse nella ricerca tramite un campionamento a grappoli, è emerso che:
Il ritardo alla messa al seno (stimato nel nostro campione pari a 3,8 ore in media) era dovuto all’esecuzione di rituali tradizionali quali il rito del “tokental”, una soluzione benedetta da un “marabout” (figura di riferimento religioso nella cultura islamica) a base di acqua zuccherata o dolcificata con miele o, anche, a base di latte di capra che viene somministrata al neonato come primo alimento. Tale pratica era effettuata dal 82% delle donne intervistate.
La maggior parte delle donne dichiarava di non praticare l’allattamento esclusivo, e di integrare il latte materno con alimenti solidi o con liquidi, con particolare riferimento all’acqua, che veniva somministrata dal 75% delle donne incluse nella ricerca.
Le principali ragioni di inosservanza erano da identificarsi nella presunta necessità di dissetare con acqua il bambino a causa delle alte temperature ambientali; nell’esecuzione di riti tradizionali; nella necessità da parte delle donne di riprendere precocemente le attività quotidiane che permettono il sostentamento economico della famiglia; od ancora, nella struttura sociale che impedisce di trasgredire le regole imposte o le conoscenze delle figure più autorevoli della famiglia quali ad esempio il marito, la suocera, ecc.
Il ruolo dell’antropologia medica come strategia atta a considerare le dinamiche sociali e culturali nei contesti degli interventi è ben delineato, in particolare in complemento alle ricerche più prettamente biometriche-epidemiologiche i cui risultati sono però insufficienti da soli per la comprensione dell’aspetto sociale nel suo insieme. In questo modo, un’analisi antropologica nel contesto rurale senegalese porta a poter sviluppare raccomandazioni progettuali basate su una comprensione del sistema di conoscenza locale, dei valori dei riti e dei ruoli sociali identificati.
C’è tuttavia un rischio da considerare; quello che Didier Fassin, medico ed antropologo, professore all’Università Paris XIII, racconta parlando della sua esperienza nel mondo della cooperazione internazionale ed in particolare di quando veniva sollecitato di fronte all’insorgenza di quel “gap antropologico”: «Questo tipo di interrogazioni mi sembravano da una parte legittime, dall’altra problematiche. […] Problematiche, in quello che la domanda stessa suppone, ovvero che le difficoltà abbiano origine dalla popolazione o dalla sua cultura».
Non è solo di Fassin la sensazione che, nel seppur imprescindibile rapporto tra cooperazione e antropologia, qualcosa non quadri. Ma è Bernard Hours, antropologo direttore emerito della ricerca all’istituto francese di ricerca per lo sviluppo (IRD), a definire da cosa questa sensazione sia dovuta esprimendo la tensione tra l’approccio universalistico della cooperazione e quello relativista dell’antropologia: «Le crociate, i grandi navigatori ed esploratori del nuovo mondo, il colonialismo e la più attuale globalizzazione segnano le tappe essenziali nella conoscenza e nel rapporto con l’alterità. L’aiuto umanitario è l’ultima figura di questa globalizzazione morale effettuata in nome dei diritti dell’Uomo cosiddetti universali, seppure estremamente evoluta dalle sue origini. Dal punto di vista degli antropologi, i cui ambiti di ricerca iniziali scemano a poco a poco, si comincia a propendere verso l’aiuto umanitario che rappresenta nella società una componente significativa del rapporto con “l’altro” del terzo millennio. Il “povero” e la “vittima” rimpiazzano dunque il “selvaggio” e “l’indigeno” di ieri. Dopo i riti esotici, sono la malattia e la fame a simboleggiare l’alterità post moderna» (10).
Spesso è implicita l’idea che il Nord del mondo porti, per così dire, “soccorso” ad un Sud del mondo vulnerabile e questo attraverso il “sapere” dell’occidente. Storicamente l’aiuto umanitario è sempre arrivato “dall’alto”, il che si basa in fondo su un modello di superiorità applicato dal Nord nei confronti del Sud del mondo. Anche l’antropologia non è estranea a queste dinamiche: la disciplina ha avuto, nella sua storia, un ruolo chiave nelle conquiste militari del colonialismo, quando gli antropologi fungevano da ponte tra i militari e gli esploratori da una parte e le popolazioni native dall’altra. Come risultato, l’antropologia ha sviluppato il suo metodo di ricerca, l’etnografia, integrando la componente essenziale della riflessività (dell’antropologo stesso) e di criticità nei confronti delle strutture di potere egemoniche coinvolte nell’oppressione neocoloniale (ciò che prenderebbe nome di “antropologia medica critica”). Allora, certo, la situazione è cambiata; ma all’interno di questo settore, riemerge sotto forme diverse il passato coloniale di sfruttamento nel neocolonialismo e nella subalternità purtroppo ancora presenti.
in questo contesto che si inizia a parlare di decolonizzazione dell’aiuto umanitario, di tentare di creare una cooperazione internazionale basata su nuovi paradigmi, per superare la narrazione dell’occidentale bianco che arriva in aiuto ai bisognosi e di mettere invece al centro il principio di solidarietà. È del 2020 il report dal titolo “Time to decolonize aid”, nel quale è stato denunciato il “razzismo strutturale” e le pratiche e le attitudini di derivazione colonialista tuttora presenti all’interno del settore e fatto un appello alla decolonizzazione della cooperazione (11).
Sono quindi due i punti di attenzione (12, 13).
Cooperazione e antropologia, insieme, possono favorire quel passaggio che, dall’etico all’emico (14), risulta essenziale per l’implementazione di progetti basati su una approfondita conoscenza e considerazione delle comunità con cui si andrà ad agire oltre che per tentare di risolvere la tensione tra universalismo e relativismo.
D’altra parte, il lavoro dell’antropologia nel mondo della cooperazione è richiamato a decolonizzarsi ed a sviluppare un approccio olistico che, esulando dalle categorie “povero”, “bisognoso”, “Nord”, “Sud”, permetta di ricostruire una visione nuova dell’alterità, ne valorizzi l’identità e la storia e ne protegga il diritto all’auto-determinazione.
Carlotta Carboni, medico specializzando in Sanità Pubblica, Università delle Antille e della Guyana Francese
Danielle De Vito Halevy, antropologa medica – School of Oriental and African Studies (SOAS) e University College London (UCL).
Maria José Caldés Pinilla, direttrice del Centro di Salute Globale della Regione Toscana

Bibliografia
1- https://www.who.int/health-topics/breastfeeding#tab=tab_1
2- FAO, IFAD, UNICEF, WFP and WHO. 2022. The State of Food Security and Nutrition in the World 2022. Repurposing food and agricultural policies to make healthy diets more affordable. Rome, FAO. https://doi.org/10.4060/cc0639en
3- https://data.unicef.org/topic/nutrition/infant-and-young-child-feeding/
4- Ministère de la Santé et de l’Action Sociale. Enquete Nationale de Securite Alimentaire, Nutrition et Resilience 2019
5- Joseph FI, Earland J. A qualitative exploration of the sociocultural determinants of exclusive breastfeeding practices among rural mothers, North West Nigeria. Int Breastfeed 2019 Aug 20;14:38. doi: 10.1186/s13006-019-0231-z. PMID: 31452669; PMCID: PMC6701117. https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC6701117/pdf/13006_2019_Article_231.pdf
6- Lhotska L, Richter J, Arendt M. Protecting Breastfeeding From Conflicts of Interest. J Hum Lact. 2020 Feb;36(1):22-28. doi: 10.1177/0890334419885859. Epub 2019 Dec 9. PMID: 31815586.
7- Outil NetCode. Suivi de la commercialisation des substituts du lait maternel: protocole applicable aux systèmes de suivi continu [NetCode toolkit. Monitoring the marketing of breast-milk substitutes: protocol for ongoing monitoring systems]. Geneva : Organisation mondiale de la Santé ; 2018. Licence : CC BY-NC-SA 3.0 IGO.
8- WHO/UNICEF. Global nutrition targets 2025: breastfeeding policy brief (WHO/NMH/NHD/14.7). Geneva: World Health Organization; 2014. https://apps.who.int/iris/handle/10665/149022
9- https://www.centrosaluteglobale.eu/i-risultati-della-ricerca-sullallattamento-esclusivo-al-seno-e-la-nutrizione-nei-primi-1000-giorni-in-senegal/
10- Duroch, Françoise & Atlani, sous. (2007). Quelle plus-value une organisation médicale d’urgence doit-elle attendre de l’anthropologie? Humanitaire. https://www.researchgate.net/publication/233842088_Quelle_plus-value_une_organisation_ medicale_d’urgencedoit-elle_attendre_de_l’anthropologie
11- Time to Decolonise Aid Published by Peace Direct, Second Floor, 72-74 Mare St, London E8 4RT Registered charity in England and Wales, number 1123241. Registered 501(c)(3) in the US, EIN/Tax ID: #27-4681063. First Edition published 10th May 2021 Second Edition published 12th May 2021 https://www.peacedirect.org/wp-content/uploads/2021/05/PD-Decolonising-Aid_Second-Edition.pdf
12- Tumilowicz A, Neufeld LM, Pelto GH. Using ethnography in implementation research to improve nutrition interventions in populations. Matern Child Nutr. 2015 Dec;11 Suppl 3(Suppl 3):55-72. doi: 10.1111/mcn.12246. PMID: 26778802; PMCID: PMC5019237. https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC5019237/pdf/MCN-11-55.pdf
13- Campbell D. Anthropology’s Contribution to Public Health Policy Development. Mcgill J Med. 2011 Jun;13(1):76. PMID: 22363184; PMCID: PMC3277334. https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC3277334/pdf/mjm-1301-076.pdf
14- Treccani, Enciclopedia italiana, VI appendice, “Antropologia culturale” https://www.treccani.it/enciclopedia/tag/emico/

(Carlotta Carboni, Danielle De Vito Halevy e Maria José Caldés Pinilla)

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