Tra colloqui di pace e piani di guerra l’Etiopia sempre più in bilico
Domani, 10 gennaio 2022,
di Mario Giro (politologo)
Un anno di guerra in Tigray
I tentativi di dialogo tra Etiopia e Tigray falliscono prima ancora di cominciare a causa dei bombardamenti di Addis sul campo profughi di Dedebit a pochi chilometri da Sciré. L’occasione era la tregua de facto dei combattimenti e la decisione di ritiro delle forze del Tigray Defense Forces (Tdf) dalle regioni di Afar e Amhara. Pareva un buon momento per avviare una soluzione negoziata del conflitto. Jeffrey Feltman, l’inviato speciale americano, si è recato ad Addis per discuterne. In quell’occasione il governo del premier Abyi Ahmed ha dichiarato che «non intende proseguire l’offensiva nel Tigrai». Ora i recenti bombardamenti paiono smentire tale impegno.
Tutto va storto
La spinta diplomatica è giunta anche grazie alla lettera che il leader del Tigray People’s Liberation Front (Tplf) Debretsion Gebremichael ha scritto al segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres il 19 dicembre, annunciando il ritiro dalle regioni di Afar e Amhara. «Confidiamo che il nostro coraggioso atto di ritiro rappresenterà un’apertura decisiva per la pace», ha scritto Debretsion chiedendo una «immediata cessazione delle ostilità» seguita da trattative. Il governo etiope ha reagito affermando che si tratta solo di una “pausa” nelle operazioni militari. Addis ha anche criticato le fake news di massacri e genocidio che i tigrini avrebbero fatto lievitare in questi mesi, anche se le agenzie umanitarie sono unanimi nel denunciare tali atti sia da una parte che dall’altra. Nonostante l’affaticamento militare di entrambe le parti dovuto alle pesanti perdite, l’inizio di colloqui rimane per ora un’ipotesi lontana. Lo stesso ritiro del Tdf, causato dall’attacco dei droni di Addis dopo che i tigrini erano ormai a 200 km dalla capitale, potrebbe determinare l’incistarsi del conflitto e l’inizio di una guerra di attrito. Gli Stati Uniti stanno facendo tutto il possibile per avviare il negoziato, debolmente sostenuti dall’Europa, mentre le altre potenze (globali o regionali) interessate alla vicenda stanno soltanto valutando da che parte schierarsi in base ai rispettivi interessi. La questione della diga Grand Ethiopian Renaissance Dam (Gerd) ha sicuramente avvicinato l’Egitto al Tdf così come la disputa frontaliera tra Sudan e Etiopia a proposito dell’area di al Fashaga.
Un anno di guerra
Nell’anno di guerra fin qui trascorso non è parso che il governo di Addis abbia in qualche modo modificato la sua posizione inflessibile. Inoltre le sanzioni Usa, e cioè l’esclusione dalle facilitazioni commerciali dell’African Growth and Opportunity Act, non facilitano le buone disposizioni etiopiche nei confronti della pressione americana. Nei media etiopici si continua a criticare Washington per il fatto di non considerare il Tplf come un gruppo terroristico. Anche i tigrini non sembrano ancora pronti a sedersi al tavolo e cercano di giungerci in posizione di forza, come da reali interlocutori. Il Tplf vuole un riconoscimento politico che Addis non è per ora disposta a concedere trattandoli da ribelli. L’alleanza etiopico-eritrea della prima fase del conflitto ha reso i tigrini estremamente diffidenti: credono di essere di fronte ad una minaccia esistenziale ed è altamente improbabile che accettino di ridimensionarsi. L’intervento delle forze armate eritree nei primi mesi di guerra rimane una ferita profonda. Accanto alle prime timide offerte di cessazione momentanea dei combattimenti, i falchi di entrambi i lati hanno affermato di essere pronti a una lotta ad oltranza. Nella sua lettera all’Onu, Debretsion dichiara orgogliosamente che le Tdf sono “intatte e imbattute sul terreno” e chiede come precondizione sui futuri colloqui il ritiro delle forze etiopiche, eritree e amhara dalle zone del Tigrayche ancora occupano. Qui sta un dettaglio diabolico: non c’è consenso (né c‘era prima della guerra) sulla frontiera interna tra Tigraye Amhara. I tigrini considerano di loro pertinenza etnica il distretto di Welkait ed altre aree frontaliere con il Sudan, abitate in prevalenza da amhara. In questo anno di guerra hanno più volte cercato di attaccare l’area che va fino al confine del Sudan, anche per sbloccare l’isolamento a cui sono sottoposti. La forte resistenza delle milizie amhara ha fatto sì che, per scendere verso Addis, le Tdf siano dovute passare dall’altra parte, cioè l’Afar. Si tratta di vecchi contenziosi che avevano provocato molte polemiche nell’Etiopia federale, con il ridisegno dei confini interni da parte del governo Melles Zenawi, ritracciati in seguito dal governo Abiy Ahmed. Il Tplf chiede in aggiunta una no-fly zone anti droni sul Tigray che rappresenta l’unico reale vantaggio strategico di Addis su Maccallé. Infine una richiesta urgente è l’apertura di passaggi e ponti aerei umanitari per consegnare cibo e aiuti che mancano crudelmente al Tigray fin dall’inizio della guerra. Durante il loro ritiro dalle zone previamente occupate in questi mesi, le Tdf hanno portato via tutto ciò che potevano: un bottino che è servito per rifarsi del saccheggio subito nei primi mesi guerra. Il conflitto ha assunto per ciò stesso un aspetto da guerra totale che non risparmia i civili e funziona col sistema della terra bruciata. Ecco perché la spinta al negoziato dovrebbe vedere anche l’Italia e l’Europa in prima fila.
(Mario Giro)
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